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Attualità

ANALISI DEL FEMMINICIDIO

LUISA OPRANDI - 17/04/2015

femminicidioQuesta volta è successo alle porte di casa nostra, a Gerenzano. L’ennesimo tragico caso di una donna uccisa dalla violenza del proprio ex compagno. E ancora una volta, oltre a lei, massacrata a coltellate, a essere vittime sono anche i figli, soprattutto una giovane adolescente, svegliata dalle urla domestiche e divenuta consapevole della tragedia dal lago di sangue dentro cui ha trovato riversi i corpi della mamma e del padre assassino che, dopo il crimine, ha tentato il suicidio.

C’è chi rifiuta di definire questa barbarie col termine “femminicidio” ritenendolo una restrizione non giustificata del reato più ampio di omicidio. In realtà le cose vanno chiamate col proprio nome, senza scusanti. Il neologismo è stato infatti coniato e fatto proprio dalla contemporaneità per identificare con le parole una situazione che è andata drammaticamente degenerando, caratterizzandosi in tempi recenti con tratti e fisionomia specifici.

 Dietro queste tragedie si annida infatti la cultura del “possesso”: nella maggior parte dei casi infatti alla base della inaudita violenza sulla donna c’è la non accettazione da parte del marito, compagno o fidanzato di una separazione o di una mancata sottomissione all’idea padronale da parte dell’uomo. Le uccisioni sono purtroppo solo la drammatica punta dell’iceberg di reiterate serie di altre domestiche violenze fisiche e psicologiche, perpetrate in forma vessatoria e capaci di annientare spesso anche la volontà di ribellione. Uccidere una donna tra le mura di casa o in contesti affettivamente prossimali ha quindi sé una aggravante culturale che distingue questa forma di delitto dalle altre, seppur gravi.

Il termine venne citato nel 1990 per la prima volta, nella sua accezione moderna, dalla docente di Studi culturali americani Jane Capoti e dalla criminologa Diana Russell, per indicare l’ “uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso “. La stessa Russel, successivamente, identificò il femminicidio come categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè la violenza è l’esito di pratiche misogine.

Il dizionario Devoto/Oli, nel dare seguito alla evoluzione culturale e sociale della lingua, definisce Femminicidio qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

Fanno rabbrividire i dati registrati dal Consiglio d’Europa nel 2013, anno che ha fatto segnare punte elevate del fenomeno. Le donne uccise a causa della violenza di genere in Europa sono state almeno dodici al giorno. Il dato italiano è stato comunque tra i più tragici, tanto che nel 2013 le donne uccise sono state ben 134, una ogni due giorni e mezzo e i numeri forniti dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna hanno fatto aggiungere alle uccisioni anche 47 tentati omicidi di donne e percentuali del 70% circa di donne uccise da uomini con cui avevano o hanno avuto una relazione sentimentale (mariti, compagni, ex mariti, ex compagni, fidanzati…). La maggior parte degli omicidi vengono compiuti nella casa della coppia, della vittima o dell’autore, circa 80% delle donne sono italiane, come anche gli autori sono spesso italiani. Una escalation che ha portato a oltre 330 il numero di donne uccise in Italia dal 2000 a oggi.

Marcela Lagarde, antropologa messicana, ha individuato nel femminicidio un problema strutturale, che va oltre gli omicidi delle donne, riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella loro dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica. Pensiamo a quelle donne che subiscono per anni molestie sessuali sul lavoro, o violenza psicologica dal proprio compagno, e alla difficoltà, una volta trovata la forza di uscire da quelle situazioni, di ricostruirsi una vita, di riappropriarsi di sé”.

In tale direzione va la Convenzione di Istambul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, un trattato internazionale che contiene la definizione di “violenza di genere”. e la caratterizza come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione (Art. 3 lett. a), chiamando i singoli Paesi a prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli (art. 5).

Stavolta, che è successo alle porte di casa nostra, il femminicidio risuona ancor più drammaticamente frutto di una insana mentalità che nel terzo Millennio continua a pesare sulla coscienza collettiva. Perché, come disse Kofi Annan che fu segretario generale delle Nazioni Unite fino al 2006, la violenza contro le donne è forse la violazione dei diritti umani più vergognosa. “Essa non conosce confini né geografia, cultura o ricchezza. Fin tanto che continuerà non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace”.

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