Si può dire: il calcio è lo sport più bello del mondo, anche se ci sono tante ombre che lo fanno apparire diverso da quello che realmente è. Se facciamo un passo indietro e ritorniamo per un attimo nello spazio di un cortile, di una via, di una piazza o di un oratorio ci rivediamo con un pallone tra i piedi, mentre cerchiamo di dribblare il nostro compagno di giochi per cercare di fare gol. Magari non ci sono i pali, non c’è la rete, ci sono due pietre o due sassi raccolti in fretta e furia qua e là per non perdere tempo, ma la passione e l’entusiasmo fanno apparire quello spazio un magnifico stadio di serie A e la partita diventa come per incanto una finale di Coppa combattuta allo spasimo da ragazzini spinti da un cuore grande.
È il mondo della giovinezza che non fa dormire, perché quel pallone vorresti averlo sempre vicino. Il gioco del calcio nasce così, da una sfera che colora di fantasia il mondo dei ragazzi, fatto di gestualità, emulazioni, di voglia di correre, saltare, urlare alla vita la gioia di esserci. Quante sgridate per una partita, quanti rimproveri per non aver rispettato gli orari, quanti litigi per una palla non passata, per un eccesso di protagonismo, di ginnica mascolinità. Ma tutto sempre così genuino, trasparente, euforico, appassionante, un gioco che non vorresti abbandonare mai.
Si diventa grandi con le partite, con una maglietta colorata di speranze, con i calzettoni appoggiati sulle caviglie come quelli di un campione argentino artista della pelota. Si diventa grandi a furia di pedate, ma è tutto bellissimo. Gli allenamenti, i tuoi amici, le partite, l’attesa, il gol, tutto gira nel cuore e nella mente come in un film.
L’allenatore è una figura che ami e rispetti come un padre, perché è lui con la sua esperienza e con la sua bravura che ti indica la strada. È lui che ti fa capire quanto sia bello vincere e perdere con la certezza di aver fatto fino in fondo il proprio dovere. Nessuno si sarebbe immaginato di mancargli di rispetto.
Era così anche per l’arbitro, quella figura vestita di nero che mandava in fumo i sogni di chi avesse violato le regole. La domenica eravamo con le orecchie incollate alla radio per seguire Tutto il Calcio Minuto per Minuto. Non ci perdevamo nulla delle mitiche radiocronache di Roberto Bortoluzzi, Enrico Ameri e Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali, con quelle voci incredibili che bucavano la radio e ti entravano nella testa e nel cuore con la forza di un uragano. Volevi non perdere nulla di quei boati di pubblico che accompagnavano l’ultimo gol.
Amare il calcio era la cosa più bella e naturale del mondo. Se poi avevi l’occasione di essere accompagnato allo stadio da qualche patito della domenica toccavi il cielo con un dito. Ricordo un Milan – Spal a San Siro grazie ad amici che mi hanno portato a vedere José Altafini, con il leggendario Lorenzo Buffon tra i pali. Ricordo il bravissimo Massei, grande ragionatore di centrocampo.
Oggi direbbero una “figata”, ma ai miei tempi si ammirava in silenzio e si sognava. Il rimescolio era tutto dentro, le parolacce se le potevano permettere in pochi. Lo stadio era una marea di gente felice di poter vedere da vicino i propri beniamini, di poterli raccontare, applaudire, osannare. Qualche volta ci scappava la litigata, ma erano cose da bulli di periferia. In campo comandava il gioco con i suoi campioni, le loro serpentine, la loro capacità di esaltare il pubblico con rocambolesche fantasie. C’erano gli argentini dalla “faccia sporca”, gli uruguaiani con grandi baffi neri e poi qualche brasiliano uscito dai trionfi del Maracanà. C’erano ragazzi italiani spuntati dalle corti e dalle aie, dagli oratori e dai campetti di periferia. Prima due stranieri per squadra, poi al massimo tre e non tutti potevano permetterseli, perché già allora costavano fior di milioni. C’era il signor Fiat, l’avvocato Gianni Agnelli che alimentava i sogni della gente con la sua Juve.
Poi le squadre sono diventate aziende quotate in borsa, i giocatori sono divi amati dalle showgirls, gli stadi teatro di barbare sfide tra tifosi e le distanze tra lo stadio e la stazione campi di battaglia. Tutto è diventato possibile: uccisioni, calcio scommesse, razzismo, doping, violenza, risse, partite truccate, barbarismi di ogni genere. Il calcio ha perso per strada quei valori che ne avevano favorito l’ascesa. I tifosi in molti casi si sono trasformati in assalitori, demolitori, attaccabrighe e i giocatori hanno gettato alle ortiche il buon esempio, lasciandosi andare a parolacce, sputi, pugni, calci, risse e così via. Basta qualche sconfitta per mettere in forse il ruolo dell’allenatore e l’arbitro fatica a far rispettare la legge. Il clima che circonda il calcio è da guerra fredda, è così un po’ in tutte le parti del mondo. I morti dello stadio Heysel sono una testimonianza vivente di strage allo stadio.
È ancora possibile allineare il gioco del calcio tra gli sport che insegnano valori e che producono benessere? A Roma hooligans fanatici hanno messo a ferro e a fuoco la città sotto gli occhi sbigottiti di cittadini e di turisti. Un’intera nazione è diventata zimbello mondiale. In questo clima assurdo diventa difficile ipotizzare un futuro per i nostri figli costretti ad essere, loro malgrado, protagonisti di una straziante decadenza che coinvolge tutto. Così anche lo sport più bello del mondo rischia di cadere sotto il peso di una violenza corruttiva che non guarda in faccia nessuno. Forse occorre fare un esame di coscienza e chiedersi se questa è la via da seguire per insegnare ai nostri figli la lealtà, la giustizia, la legalità, il rispetto di sé e quello del prossimo.
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