Il concetto di discrezione somiglia ad un condominio non particolarmente grande, ma in cui coabitano inquilini tra loro piuttosto diversi, anche se affini per parentela. Per prima cosa, dobbiamo chiederci come tutti quegli inquilini siano finiti ad abitare proprio lì.
Alla radice del termine «discrezione» vi è il verbo latino «cernere», «cogliere», vedere distintamente, ma anche «scegliere», preceduto da un suffisso, «dis», che ha una funzione rafforzativo del verbo: cogliere con particolare chiarezza in ogni particolare, scegliere tenendo conto non solo delle distinzioni più grossolane, ma altresì di quelle più sottili. Di qui il termine italiano «discernimento», la capacità di compiere una distinzione precisa che consenta una valutazione fondata, un giudizio conveniente. Da questa prima famiglia di significati deriva anche il senso del termine «discrezionalità»; ove non siano emersi con chiarezza dei criteri di discernimento netto, ad esempio in ambito giuridico, interviene una valutazione discrezionale, una scelta dettata dall’esperienza, dall’intuizione, dall’esame di un dettaglio. Si tratta, in questo caso, di trovare la misura giusta di ciò che stiamo giudicando: quando non esiste un criterio a priori, applicabile deduttivamente alle cose, può solo venirci in soccorso la phrònesis aristotelica, il pascaliano «ésprit de finesse», un induttivo criterio di giustezza che, valendosi di distinzioni più sottili, ci permette di tenere insieme nella valutazione tutti i pezzi che compongono il quadro. Alla stessa radice risale anche il significato del termine «discreto» in geometria: indica la discontinuità, un’intercapedine vuota, non importa quanto infinitesimale, tra due figure o corpi. Nella logica tradizionale, anche i cosiddetti «indiscernibili» – questa goccia d’acqua e quest’altra assolutamente uguale alla prima – sono diversi, per il semplice fatto di essere due. Il discernimento è dunque una capacità di giudizio fondata sulla composizione dei dettagli più che da una visione dell’insieme.
Da questa capacità discende il secondo ramo della famiglia, quello che fa capo alla «misura». Qui la discrezione sembra rientrare in uno stile comportamentale nei confronti degli altri, che implica anzitutto certe componenti del carattere come il tatto, il riguardo, la delicatezza, la riservatezza, l’intuizione empatica, la capacità di contenerci e quant’altro aiuta a non mettere in imbarazzo gli altri. L’esercizio della discrezione rinvia al possesso di virtù quali la prudenza, l’equilibrio, il riserbo, la moderazione e l’autocontrollo. L’assenza di discrezione suscita, al contrario, atteggiamenti vagamente morbosi, come un’insana e scriteriata curiosità, o pericolosi debordamenti, come l’invadenza, ed esalta la nostra inclinazione a situarci al centro dell’attenzione, spingendoci a finire «sopra le righe».
Le due famiglie si somigliano in un punto: concernono gli altri, non noi. Se riguardano noi, è solo in quanto il nostro modo di agire è riferito agli altri. Ma sin qui restiamo ancora alla superficie delle cose.
Se osserviamo meglio, vi è un grado di parentela più forte, che ha portato i vari inquilini a convivere nel condominio della metafora iniziale: è l’idea di una presa di distanza che si manifesta come distinzione. Chi discerne, non confonde, dispone ciò che vede nel suo limite, coglie dei confini, un «qui» rispetto ad un «là». Nello stesso modo, chi si comporta con discrezione sa «tenersi a debita distanza», e così protegge sé non meno che l’altro con cui si relaziona.
La discrezione segna un confine che protegge soprattutto l’intimità, che non abbiamo diritto di violare. Ma quale intimità viene protetta? Si tratta dell’intimità che prescinde dalle usanze; ha, in altre parole, un carattere metaculturale. Nei teatri e nelle strade del mondo greco, e poi in quello romano ed ellenizzato, i servizi pubblici erano promiscui, senza le intimità che ci sono consuete. Anche le attività sessuali non esigevano necessariamente spazi appartati. Se oggi tornassimo a queste abitudini antiche verremmo giudicati dei perversi pericolosi, ma il punto da notare è un altro. Anche il mondo antico ci invitava alla discrezione e praticava l’intimità. Non è dunque la sfera del corpo ad essere l’oggetto permanente dell’intimità – quella sfera è investita da processi di civilizzazione mutevoli –, semmai è la sfera dei vissuti, degli affetti, dei sentimenti, in una parola l’interiorità profonda di ciascuno. L’intimità che pretende discrezione ha a che fare con un che di inesprimibile più ancora di qualcosa che non ci sentiamo di esprimere, o che non vogliamo o sappiamo esprimere. La discrezione è il tributo che offriamo, o meglio ancora doniamo, alla reciprocità del pudore.
La presa di distanza che si esercita attraverso la distinzione contiene una contraddizione tra la prima e la seconda famiglia. Il discernimento ha a che fare con il giudizio. Inerisce soprattutto la sfera cognitiva. La misura ha invece a che fare con la sospensione del giudizio (quella che i filosofi amano chiamare «epoché»): una sospensione che non si limita a neutralizzare la nostra abitudine a valutare, ma a disporci molto oltre, in uno stato momentaneo di «assenza», di non visibilità.
L’essenza della discrezione non formale, come quella che abbiamo attribuito alla prima famiglia, sta in altre parole nel sottrarci, nel toglierci momentaneamente di scena, nello sparire per un certo tempo, non importa quanto lungo, dallo sguardo degli altri, in un distanziamento radicale di noi stessi dal mondo e dalle sue logiche, nell’accontentarci di essere semplici spettatori. A quale scopo rivolgiamo questo tipo di discrezione? Sottraendoci, cogliamo meglio l’altro, ne vediamo il valore intrinseco, come se il nostro mondo, esponendosi indifeso a noi che gli stiamo a distanza, si offrisse a noi nudo nella sua purezza; e cogliendone la bellezza di quello stato puro percepiamo un’affettività particolare, non performativa, assoluta. Una condizione invidiabile, per quanto – necessariamente – breve, circoscritta a pochi istanti. Discrezione è guardare il proprio figlio dormire, un ragazzo affannato che corre per non giungere tardi a scuola, due anziani che discorrono su una panchina al parco, una madre che allatta. Non c’è un’occasione specifica per essere discreti in questa accezione di senso: ogni occasione è buona, dipende solo da noi stessi, dal nostro bisogno di «sostare», sottraendoci e distogliendoci. In questa accezione, la discrezione è l’anticamera di un piacere senza eguali: quello che ci giunge dalla semplice esistenza degli altri, non importa se a noi cari o invece estranei, e dalla contemplazione senza scopo del loro viverci al fianco.
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