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Noterelle

LA DONNA, IL DOLORE

EMILIO CORBETTA - 17/04/2015

donnaQuello delle donne è un tema che sta diventando molto intrigante da qualche tempo: si ripete fino alla noia che se ne vuol parlare per cercare di restituire loro gli spazi rubati nei secoli, ma non so se stiamo andando sulla via giusta.

È spesso mostrata la figura della donna vestita con una tuta mimetica che imbraccia con orgoglio un kalashnikov. Di contro compaiono fanciulle dall’ aspetto anoressico, costrette a camminare su pericolosi tacchi, quelli definiti a spillo, vestite con abiti incredibili, talvolta irrispettosi delle intimità proprie delle donne, che sfilano davanti ad un pubblico di mercanti.

Sono questi gli spazi da restituire alle donne?

Preferisco vederle con il camice bianco muoversi nelle corsie degli ospedali oppure impegnate davanti ad un microscopio nei laboratori, ma anche davanti ad una scolaresca, o alla scrivania impegnate a dirigere uffici, o dedicate alle arti, ma anche nella loro casa, nella vita quotidiana, dove si svolge generosamente la loro vita di donna.

Non la si valorizza con immagini estreme, con discorsi di falsa rivalutazione della sua figura. Il kalashnikov non è uno strumento che porta benessere ed i risultati del suo “cantare” sono ugualmente dolorosi sia che a premere il grilletto sia un dito maschile piuttosto che un dito femminile.

L’arma urla contro la pace e non è vero che viene usata per difesa. È fabbricata per portare dolore e venduta su un mercato bramoso di avere potere in qualunque modo, con la violenza e la sopraffazione. Non mi piace vedere figuri che si dedicano a questa attività e addolora vedere la donna imitare i maschi nell’errore della violenza.

L’odio e la violenza portano ai giorni bui della sofferenza, delle lacrime, del sangue innocente versato inutilmente nel crogiuolo della morte, signora sulla vita, fine ultimo a cui tendiamo tutti, anche quelli che maneggiano il kalashnikov. Purtroppo questi, nella loro ignoranza, pensano che a morire siano gli altri …. loro no, sono invincibili.

L’uomo sa d’avere questo destino, e ne ha terrore, ma è follia dare la morte per vendicare uno sgarro, per potere o in nome di ideologie religiose, enfatizzando il gesto con l’abuso delle tecnologie odierne, facendolo acclamare sui mass-media.

Nei giorni scorsi la morte non è stata nascosta ai nostri occhi ma meditata nel suo dramma nell’intimità delle nostre Chiese, nella nostra liturgia. A mio giudizio si deve stare in “obiettivo” silenzio davanti al mistero della fine di questa vita. Siamo fatti da proteine che hanno un termine. Per loro caratteristica non sono eterne: si rinnovano, si riproducono, ma hanno una fine. Pur sapendo questo, l’uomo è talmente perverso (mi vien da dire “stupido”) che crea volutamente un corollario di sofferenze attorno a questo evento, già doloroso di suo. Far morire un fratello torturandolo su una croce è l’essenza della perversione, ma nonostante questa cattiveria umana compare nella storia improvviso l’evento misterioso della Pasqua che ribalta tutto.

L’amore riesce a trionfare sull’errore umano e sulla morte. C’è stata la sofferenza, il dolore, le lacrime: ci è facile immaginare la “Mater Dolorosa” sotto la Croce. Ci è facile immaginare la spada profetizzata fin dall’inizio, fin dalla Presentazione al Tempio, che attraversa il suo cuore, destinata Lei come tante altre madri nei secoli a piangere sul cadavere dei figli. L’avvento del mistero della Pasqua, non facile da comprendere da noi esseri dalla “dura cervice”, continua a essere simbolo del trionfo dell’amore sulla morte e non avrebbe significato senza la morte: è la grande rivoluzione del Vangelo.

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