Vent’anni fa, il 15 aprile 1995, moriva la scrittrice Liala. Varese l’ha ricordata con una cerimonia commemorativa. Riproponiamo un ritratto che RMFonline le dedicò nel 2012.
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Nata a Carate Lario il 31 marzo 1897 Amaliana Negretti Odescalchi (della stessa famiglia Odescalchi cui appartenne un Benedetto, divenuto Papa Innocenzo XI), si spense a Varese, sua città d’adozione, il 15 aprile 1995. Accanto agli ottanta e più romanzi usciti dalle sue mani, il libro che meglio ne rivela la complessa, sensibile personalità, è senza dubbio Diario vagabondo, racconto autobiografico pubblicato da Sonzogno nel 1964, e ripubblicato più volte. La scrittura di Liala, voce nitida, impeccabile e colta, a dispetto delle distanze prese da certi critici, introduce questa volta il lettore nel suo mondo e nella sua vita, che fu equamente accompagnata, com’è per ciascuno, dalla buona e dalla cattiva sorte. Il viaggio autobiografico parte dalle sponde dell’amato Lago di Como. Qui era nata, da un papà farmacista morto quando lei era ancora bambina e da una madre insegnante, impegnata a lavorare anche per provvedere alle necessità della figlia. Il ricordo di Como e del lago è sempre vivo nel racconto della vita di Liala, e ci riporta alle escursioni in acqua della gioventù, ai tempi del liceo, con la barca Mia. Non le sarà altrettanto lieve la memoria del mare, il mare di Moneglia, dove andò sposa giovanissima al marchese Pompeo Cambiasi, un maturo ufficiale di marina, come lei di aristocratiche ascendenze, e dove visse per alcuni anni, non proprio felicemente, prima di stabilirsi definitivamente a Varese. La famiglia Cambiasi era nota anche in Varese, un avo del marchese fu tra i principali fondatori e sostenitori del Teatro Sociale. Il teatro, struttura elegante e attività operistica eccellente, da far quasi invidia alla Scala, fu sbrigativamente abbattuto nel ‘53, come registra la storia locale, per far posto a un anonimo palazzo. Nella famiglia Cambiasi c’era un’autentica passione per la lirica. Una passione supportata anche dalle doti di alcuni suoi componenti. Tra gli altri il famoso librettista Felice Romani (sue le parole de l’Elisir d’amore di Donizetti). La stessa figlia di Liala, Primavera, bella voce di contralto, studiò canto per diversi anni.
Tra le note salienti del racconto autobiografico di Diario Vagabondo è l’incontro fondamentale nella vita di Liala con due personaggi: l’editore Arnoldo Mondadori, scopritore di talenti letterari, e il poeta Gabriele d’Annunzio. L’aspirante scrittrice si presentò al primo con alcune pagine di un suo manoscritto (quello di Signorsì). Gli disse, un po’ sfrontata: “Se le piace lo termino”. Lui lo pubblicò nel ’31, e fu un successo. Al secondo si presentò in compagnia di Mondadori. Fu l’estro del Vate a imporle il nom de plume,trasformando il soprannome Liana, diminutivo di Amaliana, in Liala. Autografandole così una sua foto, d’Annunzio volle donarle per sempre quelle ali che l’avevano fatta volare in compagnia del grande amore della sua vita, il pilota marchese Vittorio Centurione Scotto. Quell’amore non sarebbe durato nel tempo. La passione per il giovane pilota finì troppo presto, per la tragica morte di Vittorio, inabissatosi nel 1926 nel Lago di Varese in occasione di una prova della Coppa Schneider.
Ma è di altro che vogliamo scrivere qui. Proprio in Diario Vagabondo Liala racconta di aver suscitato curiosità in più d’una lettrice per la presenza nei suoi romanzi rosa (un’etichetta che peraltro non amava) di alcune figure di sacerdoti. Nessuna invenzione, precisa Liala a chi le richiede informazioni, ma pura realtà. Una realtà, cui Liala teneva moltissimo, e che le aveva permesso di confrontarsi con magnifiche figure di sacerdoti. Ne ricorda innanzitutto uno, Don Giuseppe, presentato nel romanzo Settecorna. Era davvero cappellano all’aeroporto di Orbetello. “Amico di tutti i piloti, fratello, padre, consigliere, qualche volta innocente crapulone con loro, viveva la loro vita”. Nel 1930 partirono da Orbetello i ventiquattro trasvolatori dell’atlantico. A Bolama si incendiò l’apparecchio del capitano Boer e di Danilo Barbicinti; morì tutto l’equipaggio. Il cane di Boer attese a lungo il suo padrone a Orbetello. Si disperava e non mangiava più. Don Giuseppe un giorno gli parlò: “Togo, attendo anch’io il tuo padrone. Ma so che qui non arriverà più. È andato su, Togo, se lo vuoi cercare guarda in alto. E se vuoi me per padrone ti invito nella mia casa (…). Da allora si vide il malinconico lupo sempre dietro la sottana di Don Giuseppe”. Ai colleghi di Boer, stupiti per la scelta del cane, il don disse: “Non sapeva chi scegliere fra voi. Ha scelto me. Ma vuole bene a tutti”.
Don Egidio, de L’ora placida, fu invece compagno di liceo di Liala. Ostacolato dai genitori, appena poté entrò in seminario, fu poi sacerdote e monsignore al Duomo di Como. Il cognome era Nessi.
E poi Michele Todde, frate francescano, suo amico carissimo e padre spirituale per trentacinque anni. Padre Todde, e apriamo una bella parentesi di un cupo periodo storico, è noto anche per avere contribuito a salvare molte vite di perseguitati ebrei tra il ‘43 e il ‘44, contribuendo a nasconderne almeno trecento nel convento francescano, come testimoniato anche al Museo della Memoria di Assisi.
Curiosità vuole che Diario Vagabondo si chiuda proprio con l’immagine benedicente di padre Michele. Liala era andata a trovarlo ad Assisi, e fu l’ultima di tante visite che le avevano permesso di apprezzare al meglio la Basilica. “Nulla mi era ignoto, anche perché Padre Michele mi aveva tutto spiegato, tutto detto, tutto decantato. Con la grande cultura, la sua erudizione, aveva portato la mia mente a conoscere ciò che di stupendo sta nella Basilica e riguarda il grande Santo. “Anche quella volta le fece preparare un caffè dalle Suore della Carità, le romite della Santa Croce, poi l’introdusse nella sala con la scritta “Clausura” e si accinse ad ascoltarla.
“Padre Michele aveva il breviario sotto l’ascella, e come sempre era lindo, oso dire elegante, aiutato anche dalla alta, sottile figura e da quel berretto basco che portava sempre buttato indietro, con una certa spavalderia che rivelava a tratti l’ufficiale che lui era stato durante la prima Guerra Mondiale. Non gli domandai mai perché fosse diventato Frate Conventuale Minore: non accennò mai al suo passato, mi parlò sovente della sua Sardegna. L’adorava e aveva là nipoti affezionati. Parlammo di tante cose in quel pomeriggio di prima estate: l’ultimo pomeriggio che passai con Padre Michele”.
Poi, dopo la visita alla cripta, il congedo. “Baciai la mano di Padre Michele e insieme ci avviammo: la mia macchina aspettava, con altre. Ancora un saluto e me ne andai. Ma prima di lasciare la piazza, prima di uscire dal loggiato, mi volsi: era là, padre Michele, sul portale: le braccia aperte in croce, nel saluto caro a San Francesco. Così lo rivedo: le braccia spalancate, la figura alta, sottile, chiusa nell’abito nero dei frati conventuali minori, la breve mantella ricadente come contorno di ala a riposo: così lo vedo e lo vedrò sempre. Riposa nella sua Assisi, si spense lentamente, tranquillamente, pensando che presto il suo venerato Santo avrebbe accolto lui con quelle braccia spalancate nella benedizione e nella accettazione”. Quell’ultima immagine rimasta nella memoria di Liala è anche l’ultima del diario della scrittrice. Lei stessa spiega il significato di quella scelta ai suoi lettori, convinta di sorprenderli “(…)con un ricordo che forse non vi aspettate. Saluto da qui il mio Padre Michele Todde. Mi pare che chiudendo con lui questi miei ricordi possiate tutti avere quella pace e quel bene che Padre Michele voleva per ogni creatura”.
E così termina Liala, congedandosi da quelle sue pagine di vita “in cui passano infanzia, adolescenza, giovinezza e amore”: “ (…) ho certamente dimenticato qualche cosa di bello o meno bello: non so se farò in tempo a scrivere un altro diario: ora c’è questo, che vi porta qua e là con me e si chiude con l’atto puro e altissimo di un Frate vissuto felicemente in umiltà”.
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