Si è molto parlato in questi ultimi tempi di “buona scuola”. Renzi ne ha fatto uno degli obiettivi più importanti del suo programma di governo in termini di rinnovamento strutturale e di riforma risolutiva. L’urgenza di un intervento in grande stile e determinato faceva pensare alla decretazione, specie in relazione all’incancrenirsi nel tempo della piaga del precariato e alla necessità di stabilire un migliore rapporto tra scuola e mondo del lavoro. Purtroppo difficoltà imponenti di bilancio, l’agitarsi dei sindacati e la minaccia plurima di ricorsi in sede amministrativa, la difficoltà di concepire un piano organico e incisivo di interventi (dopo la Riforma Gentile e quella della scuola media inferiore concepita e attuata negli anni sessanta si è assistito più che altro a ritocchi, misure contraddittorie, mancanza di un sano rapporto tra istruzione ed educazione) hanno fatto mutare rotta. L’iter parlamentare aperto col disegno di legge fa presagire tempi lunghi ed epiche battaglie di principio non coerenti con una visione matura dei problemi e lo scatenarsi di ante istanze corporative.
C’è chi addirittura rimpiange una scuola d’élite senza smartphone, che insegni una cultura soprattutto umanistica con lo sguardo rivolto al passato. C’è chi propone alla luce dei tempi più informatica, più periti meccatronici per le aziende manifatturiere, più storia dell’arte e inglese a fini soprattutto di impiego nel settore del turismo, c’è chi giustamente insiste sui problemi di giustizia inerenti al diritto allo studio. Certo sarebbe un presupposto indispensabile (se ne parla da troppo tempo ed è intervenuto in materia di recente anche il Pontefice) retribuire un po’ meglio gli insegnanti data la delicatezza e onerosità degli impegni e delle prestazioni. Ma probabilmente la soluzione più felice, non per questo facile (parrebbe persino banale) consisterebbe nell’indurre gli alunni ad imparare a ragionare con la propria testa, ad avere spirito critico, a risolvere i problemi in senso creativo oltre la memorizzazione dei semplici dati e procedimenti, impegnandosi a fondo, in un quadro veramente innovativo di miglioramento, sapendo adeguatamente esprimersi e comunicare, interagire soprattutto in team. Queste sono le abilità che oggi significano una nuova concezione e dimensione del termine cultura ed è quanto richiedono a gran voce le aziende migliori. Vanno ripensati radicalmente sia i curricula che la didattica, quello che veramente importa è il come si studia più ancora del che cosa.
L’autovalutazione interna agli istituti, anche grazie alle misurazioni INVALSI e PISA, è di notevole rilevanza per accertare i reali progressi sulla via del cambiamento e delle effettive realizzazioni di piani e progetti concepiti sul terreno dell’autonomia,ma in connessione con le esigenze prospettate a livello nazionale; l’autovalutazione però si presterebbe a troppe interpretazioni di comodo ( ai limiti del lassismo), qualora venisse a mancare una valutazione esterna ed obiettiva. È questo uno dei difetti più gravi del nostro sistema: la mancanza di un corpus minimamente adeguato di ispettori, destinato, più che a un controllo rigidamente fiscale e mortificante, a fornire opportuni suggerimenti, incentivi, proposte, assistenza sul campo non solo teorico. Una seria valutazione delle scuole anche su base comparativa non escluderebbe sicuramente dall’esame anche i dirigenti, chiamati soprattutto ad essere bravi ed efficienti nel guidare e premiare i team degli insegnanti in base a criteri oggettivi stabiliti collegialmente, senza mai cadere in scelte di puro arbitrio.
Critiche si muovono alla concezione della scuola intesa come azienda, ai presidi manager, cui possa essere riconosciuto un eccesso di potere. Invero è necessario che si compia un enorme sforzo di riqualificazione e formazione on the job di tutto il personale, mentre va compiuta una riqualificazione della didattica nel lavoro svolto sia in classe che a casa. Sotto ogni aspetto conta la capacità di certificare il merito in modo credibile, al di là di ogni equivoco demagogico e criteri opportunistici. Le famiglie, per quanto le concerne, debbono considerare i voti non come valutazioni della persona, bensì delle prestazioni.
Dopo 50 anni di tentativi abortiti di creare una vera istruzione di massa bisogna scoprire e riscoprire una visione globale dei problemi, che implichi il soddisfacimento di tutte le esigenze che la moderna società ci pone. Per quanto concerne alcuni settori particolari va dedicata maggiore attenzione all’istruzione tecnica e professionale. L’apprendistato duale alla tedesca implica una divisione a metà del tempo scolastico con la finalità di imparare in fabbrica non soltanto un determinato mestiere da esercitare possibilmente per tutta la vita, quanto d’acquistare le competenze necessarie e la mentalità in termini organizzativi tipici del mondo del lavoro. Ben poco valgono gli stage con mansioni a margine del lavoro aziendale. L’alternanza scuola-lavoro negli istituti medi superiori non si esaurisca in visite di mera curiosità e aggiornamento in superficie.
È anche opportuno pensare a una minor durata del percorso formativo (come succede in tanti altri paesi evoluti) e in sede universitaria eliminare con decisione la piaga dei fuori corso.
Quanto alle nuove assunzioni in pianta stabile queste sono le obiezioni formulate: tra i neoassumendi uno su cinque non insegna più da anni; non pochi sono abilitati per materie ormai uscite dai programmi (con tutti i problemi di riconversione); non c’è stata sinora un’analisi approfondita dei profili professionali necessari; c’è il rischio di una logica capovolta: prima ti assumo e poi vedo che cosa ti possa far fare. Di moltissimi insegnanti si conoscono soltanto i requisiti formali.
Ma varrà la pena di riprendere il discorso.
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