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Stili di Vita

IL SENTIERO, LE DIFFICOLTÀ

VALERIO CRUGNOLA - 03/04/2015

EncyclopedieFin dalle sue origini seicentesche (penso soprattutto al pensiero liberale di Milton e Locke e a quello repubblicano di Spinoza) e alle sue propaggini nel primo ‘800 (e qui penso a Tocqueville, Constant e al liberalismo americano), il grande merito dell’illuminismo europeo è di avere invocato l’uso pubblico della ragione, che è a dire una partecipazione dei cittadini alla vita pubblica attraverso un libero confronto sulle cose muovendo da argomenti razionali. Ma qui sta anche il suo limite: fino a dove, in concreto, è possibile tale uso pubblico? La Rivoluzione francese, partita da questo presupposto, l’esito più alto delle speranze dell’illuminismo, non ha forse divorato le sue menti migliori ‒ Condorcet, Mirabeau e molti altri ‒ sfociando prima nel giacobinismo del tagliateste Robespierre e poi nell’autoritarismo politico-militare di Bonaparte?

È insomma lecito, anzi dovuto, non illudersi troppo sulla possibilità di tale uso, senza con questo respingerla a priori ed anzi non demordendo mai dal tentativo di metterla in pratica, se non altro a scopo di esemplarità e di addestramento proprio e degli altri. Soprattutto, è bene chiedersi, per «pararsi la schiena» e prevenire guai peggiori del male, cosa e chi possano insidiare quell’uso, mettendolo a rischio o addirittura inibendolo a priori nelle menti e nelle forme del sentire e del pensare, e non soltanto con modalità autoritarie di controllo, imposizione e tacitazione coatta delle menti stesse quali quelle sperimentate nelle tragedie prodotte dai totalitarismi, tra loro assai simili nonostante le differenze nei fini conclamati, per di più deformati dai mezzi devastanti impiegati, al punto da mutarsi ben presto in fini autonomi.

Ben sapendo che si tratta di opinione confutabile, ritengo che la visione illuminista, nel suo universalismo astratto, non avesse preso nella dovuta considerazione il versante più oscuro della democrazia, ossia l’irruzione delle masse nella vita politica con l’elevato carico di passioni, di illusioni, di fermentazioni non decantate, che essa implicava. L’illuminismo si limitò a cercare un antidoto prendendo a modello le città stato, come la mitizzata Atene periclea o la più reale e storicamente accertabile Ginevra: realtà di piccole dimensioni, dove tutti conoscono tutti e tutti rendono conto a tutti del loro operato e delle loro scelte. Un’idea che si ritrova in una delle sue estreme propaggini in quel Goethe e in quello Schiller che additano a modello la «loro» Weimar, novella Atene, che è come dire loro stessi presi a modello in un autoritratto venato di narcisismo. Questo antidoto potrebbe al più additarci la via di una rifondazione razionale della politica su una base civica, agendo «localmente» pur pensando «globalmente», come è in uso dire.

Tuttavia già Tocqueville, pur tributario dell’illuminismo, mostrò come un governo fondato su un impianto liberaldemocratico potesse funzionare anche in uno stato di grandi dimensioni come gli Stati Uniti, e additò una soluzione che faccio mia. In assenza di élites adeguate la democrazia liberale collassa. Servono cioè élites all’altezza, dotate di due requisiti: essere capaci di interpretare il proprio ruolo di modello educativo estendibile via via ad una base sempre più ampia perché quel modello è capace di «tenere» entro istituzioni e norme radicate e solide, da tutti sentite come credibili; ed essere capaci attraverso quelle istituzioni «discorsive», ossia parlamentari, di stemperare, decantare e moderare le passioni. È solo in quel contesto discorsivo, fondato su una selezione qualitativa delle migliori risorse e delle migliori competenze e sullo stemperamento delle passioni e delle relative «partigianerie» preconcette, che l’uso pubblico della ragione può realizzarsi. Non cioè in una astratta universalità, ma in una ben definita particolarità. L’ipotesi di Lenin (in verità mera propaganda visto che lo stesso personaggio teorizzò e mise in atto un partito accentratore e dispotico), di una «cuoca al governo» può valere come idea-limite, ma all’atto pratico o è inservibile o, peggio, dannosa, come i fatti hanno dimostrato.

All’inizio del secolo scorso, la teoria delle élites ha avuto proprio in Italia i suoi migliori interpreti: oltre ai tre «classici» ‒ Mosca, Michels e soprattutto Pareto ‒, possiamo annoverare tra loro anche Croce, Gentile, Gobetti e in ultimo Gramsci, ossia i punti più alti della riflessione filosofica e politica della prima metà del ‘900 italiano, i soli ‒ diversamente dai precursori ‒ ad essersi resi conto di almeno una delle due fratture, e precisamente la seconda, intercorse nella storia delle élites in Europa. La prima, nell’ultimo quarto del ‘900 fino alla conflagrazione del 1914, consistette nella subordinazione del sistema liberale incamminato verso una piena democrazia a logiche nazionaliste e colonialiste, che implicarono un processo di totale identificazione tra stato, nazione e popolo, foriero di una democrazia autoritaria e illiberale (peraltro già sperimentata da Napoleone III), se non altro perché fondata su una mobilitazione dall’alto delle masse, prese come un tutto e come tali, con la celebre intuizione di Mosse, «nazionalizzate». La seconda frattura, intercorsa al termine del primo conflitto mondiale, non consistette tanto nella definitiva destrutturazione dei grandi imperi, quanto dalla destabilizzazione prodotta dall’irruzione delle masse nazionalizzate dalla guerra, spesso con piccoli o medi ‒ per dimensione ‒ revanscismi nei confronti dei vecchi dominatori, come nei Balcani o in Polonia e Ungheria, presto preda di regimi autoritari sostenute da un cattolicesimo integralista, in una vita politica contraddistinta da istituzioni e da élites di vecchio tipo e non più in grado di «tenere». Croce, Gentile, Gobetti e Gramsci tentarono di fronteggiare, da posizioni molto diverse, la crisi delle istituzioni e delle élites italiane. Vinse il fascismo, che Gentile decise di abbracciare; i restanti tre ne furono vittime. Si passò così, attraverso varie convulsioni rivoluzionarie, da un regime liberale ad uno totalitario: le élites furono sostituite dal Capo e dai suoi mediocri bracci destri, quando non nuovi cortigiani. Si apri una tragedia epocale. Ovunque, URSS prima leninista e poi staliniana compresa, il capo carismatico (non ancora gli odierni Frankenstein costruiti in laboratorio), sostenuto da un partito-stato, divenne la saldatura tra popolo e nazione. Ma in modo demagogico, oserei dire «plebeo», senza più élites che non si fossero imposte con la forza e senza averne alcun titolo. Non a caso le élites resistettero solo nei paesi giù stabilmente avvezzi all’esercizio di una democrazia rimasta liberale e sottoposta allo stimolo delle istanze del lavoro avanzate dal socialismo riformatore.

Nel dopoguerra questa forma di democrazia liberale realizzò in Occidente il welfare State, e le élites politiche, frutto di una selezione non più vincolata alle classi privilegiate d’origine, ritrovarono il loro ruolo storico. Possiamo dire tutto quel che ci pare, ma non che non furono anni, in confronto agli attuali, di «buona politica»: la democrazia dei partiti seppe dare allora il meglio di sé. Mai come allora ci si avvicinò all’idea limite, per quanto incanalata, nonché strutturata centralmente e verticalmente, di un uso pubblico della ragione. Ma, già a partire dalla crisi inflazionistica degli anni ’70, intervenne una lenta, allora impercettibile frattura: la mediatizzazione delle masse si unì alla deindustrializzazione, e ai loro congiunti sconvolgimenti nella dimensione politica e statuale. Alle élites selezionate attraverso il filtro, in sé incongruo ma concretamente efficace, dei partiti, seguì l’avvento di leaders non selezionati, di avventurieri e di imprenditori politici che hanno fondato le loro fortune politiche sulla demagogia, sulla solleticazione di passioni e di convulsioni gastriche del tutto irrazionali. Di lì all’avvento al potere (o all’opposizione antipolitica) di carneadi inetti e ambiziosi sostenuti da plebi vocianti, o di potenti titolari delle masse mediatizzate, il passo fu breve. E questo è quanto stiamo vivendo.

L’uso pubblico della ragione non è mai stato così lontano. Inutilmente grandi pensatori liberali, come Apel e Habermas con la loro «etica del discorso» o Rawls con la sua idea di poter ricomporre, o meglio con-porre, ragioni tra loro diverse attorno a un tavolo discorsivo teso a cercare il comune consenso anziché esacerbare i singoli contrasti, hanno tentato di suggerire ai politici un approccio più razionale e, soprattutto, più morale al loro ruolo, così importante e così esposto nello stesso tempo al degrado. E invano altri, o lo stesso Habermas versione francofortese, hanno suggerito di bonificare il rapporto tra politica e opinione pubblica.

E tuttavia, nonostante tutto, è quella via, la via di un ripensato uso pubblico della ragione, che dobbiamo tentare di percorrere. Una via dove la cognizione delle cose come sono si colleghi ad una partecipazione consapevole e ad una selezione della politica in nome delle competenze e delle qualità sperimentate delle persone, al di fuori di ogni circo mediatico e senza titillare istinti, risentimenti o bassi e spesso ottusi interessi privati.

Sarà dura, ma non abbiamo alternative vincenti. Buoni politici senza una buona, esercitata cittadinanza non se ne avranno; e vale il reciproco, senza buoni politici, addio buona cittadinanza. Sembra, forse è una «missione impossibile». Certo è un’azzardo, una scommessa; ma e l’unica con una possibilità di vincere la vera posta in gioco, il futuro della democrazia partecipativa, proprio come quella di Pascal sull’esistenza di Dio. L’agire politico di ciascuno come stile di vita decide anche il futuro degli altri: degli stili di cui ci siamo occupati e di quelli di cui ci occuperemo ancora.

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