È sempre più indubbio che il radicalismo islamico non va affrontato sul suo stesso piano di ricorso alla violenza e alla repressione armata indifferenziata, alle stragi, se non si vuole che il fenomeno si potenzi grazie a una propaganda tecnologicamente sempre più pervasiva, rivolta a masse deprivate, e al tradimento dei valori rinfacciato a un Occidente secolarizzato nella difesa dei suoi squilibri lungi da ogni principio di solidarietà, tanto più se si considera che l’Islam non è un monolito grezzo senza sfaccettature. Non si possono in base all’emotività criminalizzare genericamente intere categorie sociali, immigrati o gruppi religiosi musulmani, qualificandoli senza distinzione come fautori e portatori di una strategia del terrore, virtuale o in atto, a prescindere da analisi e verifiche.
Il 6 dicembre 1990 il cardinale Martini nel discorso “Noi e l’Islam: dall’accoglienza al dialogo” già preconizzava a proposito degli immigrati e della loro integrazione, oltre i limiti della semplice accoglienza, che si dovessero inserire armonicamente nel tessuto della nazione con un confronto aperto tra persone che appartengono a pari titolo alla stessa società. E di recente il 28 dicembre 2014 il presidente egiziano al-Sisi in un discorso pronunciato all’Università al-Azhar al Cairo, principale centro teologico del mondo sunnita, rivolto a teologi e leader religiosi, proclamava la necessità di sradicare il fanatismo per rimpiazzarlo con una visione più illuminata del mondo: il mondo musulmano non può più essere percepito come fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione per il resto dell’umanità.
Noi occidentali rimproveriamo al mondo musulmano come malattie croniche l’incapacità di costruire democrazie durevoli, in cui la libertà di coscienza rispetto ai dogmi sia riconosciuta come diritto morale e politico, che il potere politico non rimanga separato dall’autorità religiosa, la condizione femminile largamente minoritaria e degradata, la mancanza di pluralismo religioso. Per parte nostra siamo chiamati a riconoscere le nostre responsabilità: una politica estera di discendenza colonialistica, un’economia mondiale globalizzata dominata dalla finanziarizzazione e dalla mitologia del profitto a oltranza, mentre non sappiamo decodificare i nostri valori rendendoli degni di stima e desiderabili per quanti appartengono a diverse tradizioni. La laicità acquistata all’interno dopo secoli di guerre di religione ci pone oggi l’interrogativo: è funzionale a proteggere i credenti da interferenze esterne o i non credenti dall’interferenza della religione nella sfera pubblica? L’esercizio della libertà deve essere inclusiva per tutte le componenti della società o escludente e discriminante?
Nel 2007 è stata promulgata in Italia la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione a riconoscimento del contributo positivo che le religioni offrono alla collettività e a superamento dei pregiudizi e di ogni forma di intolleranza; vi è proclamata la libertà di ricerca, di critica e di discussione, anche in materia religiosa; vi è proibita ogni offesa verso la religione e il sentimento religioso delle persone; vi è esaltato il rispetto verso i simboli e i segni di tutte le religioni. È su questo piano che va condotta la nostra lotta. Ancora oggi si attende una legge organica sulla libertà religiosa e di coscienza, che sia abrogativa della legislazione sui culti ammessi d’epoca fascista.
Dobbiamo scoprire sulla scorta degli insegnamenti di papa Francesco e accettare la differenza come ricchezza e fecondità, coscienti anche del fatto che nel mirino dell’integralismo è l’Islam europeo che dialoga. Nell’ermeneutica del dialogo va ritrovato l’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza. Questo è il senso della allocuzione pronunciata in occasione dell’incontro programmato nello scorso gennaio all’Urbaniana per il passaggio del Pontificio istituto di studi arabi e di islamistica da Tunisi a Roma (l’Istituto, fondato nel 1926 dai missionari d’Africa o Padri bianchi ha cambiato sede e ottica con attenzione non solo per il Nord Africa, ma per il mondo intero). Bisogna tra l’altro prendere atto che ogni religione ha il suo idioma, riconoscere la spiritualità dell’altro, affrontare i testi sacri con un metodo comparativo, non fermandosi a una interpretazione letterale, non mischiare politica e religione, utilizzare un approccio scientifico, ricorrere all’interpretazione storico-critica, approfondire la conoscenza di praticanti di fedi diverse, abbandonare i facili atteggiamenti di superiorità morale, condannare sempre le violenze di chi uccide in nome della religione. Anche perché la scoperta dell’altro diventa rivelazione di se stessi.
Certo insistono le differenze: l’Islam è un sistema gnostico di iniziazione, il Cristianesimo punta invece alla salvezza dell’uomo degradato. Il peccato d’Adamo per l’Islam è uno scivolamento, per i Cristiani una ferita mortale: Dio per i musulmani è l’Altissimo, l’Inavvicinabile, per noi vale l’epifania di Dio nello scandalo della croce (kenosi). Va comunque tenuta la distanza necessaria che eviti di cadere nel sincretismo e nella confusione.
Purtroppo il fondamentalismo è favorito dai petrodollari del Golfo, con cui l’Occidente ha stabilito un rapporto per lo meno ambiguo e la guerra è l’espressione di quanto seminato: una politica internazionale iniqua dal punto di vista economico e culturale.
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