In un relativamente breve volgere di anni, l’Italia ha visto diminuire l’affluenza alle urne e la quota dei voti validi espressi sul totale degli aventi diritto. Da una percentuale tra le più alte d’Europa se non del mondo, siamo passati a livelli di guardia, che non possono non allarmare chi ancora crede possibile e doveroso restituire alla politica un ruolo “alto”.
Questo calo non è imputabile agli elettori se non in seconda battuta. Per argomentare, occorre una premessa storiografica. Fino a venti anni fa vigeva saldamente un voto di appartenenza, caratterizzato in senso ideologico e identitario, con forti contrapposizioni di campo; i flussi da un partito all’altro equivalevano a piccoli smottamenti, a pochi punti percentuali. Ora siamo passati a un voto molto mobile, fluido, instabile.
Soprattutto, è intervenuta una logica diversa, che rinvia ad alcuni mutamenti di fondo. In verità la politica democratica è sempre stata regolata da un rapporto tra domanda e offerta, tra gli interessi degli elettori (anche quando non trasparenti e non propriamente legittimi, come nei sistemi clientelari) e l’offerta dei partiti, la loro capacità di rappresentare interessi vasti, diversificati e sapientemente portati a sintesi (anche quando la sintesi non coincideva propriamente con l’inattuabile idea-limite della ricerca del bene comune).
Nella cosiddetta Prima Repubblica i due elementi erano in equilibrio: la democrazia come pratica di cittadinanza esercitata tramite i partiti di massa organizzati corrispondeva a un compito della politica che aveva un confine ben definito, quello degli stati nazionali e, in politica estera, degli accordi interstatuali. Gli elettori potevano incidere, o almeno sentirsi tali, o comunque sentirsi rappresentati e tutelati da un partito piuttosto che da un altro. E i partiti potevano incidere, tanto al governo quanto all’opposizione, nella vita di tutti, soprattutto attraverso la politica economica e la normazione dei rapporti sociali, in particolare con la disciplina del lavoro, con la mediazione nei conflitti e con i compiti attribuiti al welfare State.
L’equilibrio tra domanda e offerta politica è mutato lentamente, talora non è stato nemmeno percepito, in particolare a sinistra, un’area troppo a lungo ingessata attorno a riferimenti ideologici e sociali via via erosi da nuove realtà, e perciò più incline al conservatorismo. La sovranità degli stati nazionali si è indebolita; il sistema produttivo è mutato entro uno scenario di competizione sempre più globale; molte economie nazionali, e tra esse la nostra, hanno perso il passo delle innovazioni; e la crisi fiscale del welfare state e quella finanziaria dei bilanci pubblici hanno fatto il resto.
Nei contesti più fragili, e magari più esposti ai vizi di un ceto politico e di un elettorato corrivo con quel ceto, quali la corruzione, la sottomissione a gruppi di interesse illegittimi quando non anzi illegali o le pratiche clientelari per dare struttura al consenso, si è assistito a un declino del ruolo dei partiti, della loro incidenza e anche della loro credibilità. Dove i grandi mutamenti strutturali si sono associati alle malattie locali, la qualità dell’offerta si è molto abbassata. E la domanda, per lo più delusa e infine disillusa o stizzita e risentita, è diminuita non solo in qualità, accontentandosi spesso del meno peggio in mancanza di meglio, ma anche e soprattutto in quantità: molti elettori dalla politica non si aspettano più nulla, e si trincerano nell’indifferenza. L’emersione del leaderismo associata alla fortuna di forze protestatarie, demagogiche e populiste, non ha fatto altro che aggravare le cose.
Lo spappolarsi della coesione sociale ha tolto ogni spazio sia alle politiche interclassiste che alle politiche ben radicate in gruppi sociali più omogenei. Il ruolo classico dei partiti è dunque profondamente mutato, ed è stato sostituito da ruoli spesso raffazzonati, più legati all’immediato e alla personalizzazione e mediatizzazione della politica che non a questioni di sostanza e di strategia di ampio respiro. La politica che decide viene dettata da forze extranazionali: le banche, la finanza, l’economia globale. Talvolta i poteri regolatori delle comunità sovranazionali (la Banca Mondiale piuttosto che la Banca Europea piuttosto che la stessa Unione Europea) vengono portate sul banco degli imputati dai malesseri sociali e da chi cerca di intercettarli a fini di marketing elettorale. Ma i margini di manovra dei governi nazionali restano ristretti. Grecia docet.
Tutto questo spiega, ma non giustifica, il degradarsi dell’offerta e lo svuotamento della domanda. Sui doveri dei politici, e dei partiti di cui sono i rappresentanti, di elevare la qualità della loro offerta, sarebbe lungo parlare, e avremo altre occasioni, poiché gli stili nell’agire politico riguardano la vita e gli stili di vita di tutti. Conviene qui incentrarsi sulla domanda. Mi volgerò ad argomenti utilitaristici, più che ad appelli etici. In altre parole, alzare le proprie pretese dalla politica con una richiesta di una maggiore qualità conviene ai cittadini prima ancora che essere un dovere morale di esercizio partecipativo della cittadinanza. Oggi gli appelli morali non sono efficaci. Farlo equivale a predicare nel deserto.
Azzerando le loro richieste, o affidandole sempre più a logiche di pura protesta sull’onda di una qualche emotività, i cittadini non fanno i loro interessi: abdicano a favore della continuità di una politica mediocre, se non più che mediocre, e alla perpetuazione della sua scarsa incidenza, della sua scarsa credibilità e della reiterazione di vizi annosi, al punto da apparire inestirpabili, come un cancro non proprio mortale ma non curabile e comunque devastante sul piano funzionale. E reagendo come reagiscono, fanno ulteriormente male a se stessi, perché oscurano alla loro vista i problemi reali, e non si pongono in condizione di sollevare una domanda all’altezza delle cose, semmai anzi sintonizzano la mediocrità della loro domanda alla mediocrità dell’offerta della politica. Soprattutto, si riducono a spettatori passivi, o non guardano nemmeno lo spettacolo, sottraendosi, e con questo rinunciano a ricostruire spazi partecipativi costruttivi e capaci di incidere e di introdurre nel circuito politico della democrazia significati e concretezza. E accentuano la delega ad un leaderismo sempre più effimero.
Un salto di consapevolezza tra gli elettori non sarà semplice, temo nemmeno possibile, a dire la verità. Non c’è segmento politico, nell’offerta partitica italiana, dove non faccia aggio qualcosa che impedisce tale salto. Vi sono almeno tre leader indiscussi e indiscutibili, altri sono in declino, altri ancora ‒ nei segmenti più piccoli ‒ decotti e in cerca di un sostituto più fresco, qualcuno è in lista d’attesa o, dopo essere salito in campo, è subito scomparso. Un vero bipolarismo è di là da venire. La ripresa è sempre annunciata ma non arriva. Imperano gli annunci o, in opposizione, evocazioni propagandistiche, apocalittiche o fieramente antipolitiche. Non c’è forza che non sia esposta al populismo, un sistema discorsivo schematico e rudimentale, che semplifica ogni cosa. Al momento gli elettori assecondano questo mercato. Dalle democrazie occidentali non giungono segnali confortanti, o innovazioni percorribili. La configurazione globale che ha prodotto la crisi della democrazia che stiamo attraversando resta immutata.
Nondimeno, gli elettori dovrebbero fare di necessità virtù, avvicinando la politica in modo diverso, più diretto, più concreto, più consapevole; dovrebbero essere essi stessi attori dell’offerta, o quantomeno dei sollecitatori esigenti, e dovrebbero essere più attenti nel vagliare l’offerta esistente e, in caso, volgersi a critiche più puntuali, meno generiche, più differenziate, e meno sensibili a residuali “richiami della foresta” o a nuovi e vecchi spettri, a nuovi e vecchi seduttori. Dovrebbero chiedere una politica meno maliarda e più concreta, più consona a quello che è possibile fare negli scenari effettivi in cui ci troviamo, e più attenta ed esigente nei riguardi dei programmi. Dovrebbero per queste vie tornare a un esercizio della cittadinanza, riscoprirne il gusto insieme con l’utilità e l’efficacia, e ‒ assaporandolo ‒ ritrovare il significato di tale esercizio: come diritto e come dovere. Si può avere sfiducia nella politica ma sentirne il bisogno a partire da una fiducia ben riposta in se stessi.
Gli organi di informazione dovrebbero a loro volta adeguarsi, specie quelli radiotelevisi (nell’insieme, tutto sommato, i quattro grandi quotidiani nazionali ‒ Repubblica, Corriere, Sole e Stampa ‒ svolgono ancora bene il loro compito), proprio perché fungono da filtro intermedio tra la domanda e l’offerta politica. Anche in questo caso gli elettori potrebbero tornare, da spettatori, a essere opinione pubblica, come si è già avuta occasione di dire.
Stiamo vivendo un passaggio difficile e irto di pericoli. Di una rifondazione della politica all’altezza delle difficoltà e dei rischi, c’è grande bisogno. Ma senza un mutamento negli atteggiamenti con cui i cittadini elettori accostano la politica, non supereremo le difficoltà e al più potremo cercare di evitare i rischi peggiori, restando ancorati alla logica del “meno peggio”, che non va lontano.
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