Verso la fine di quest’anno Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato in odium fidei il 24 marzo1980 alle sei di pomeriggio mentre celebrava la messa nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza, dove viveva in estrema umiltà di condizioni, sarà elevato agli altari. La causa di canonizzazione, patrocinata dal postulatore monsignor Vincenzo Paglia, concluderà così un iter tormentato, in cui a torto questo esimio testimone della fede ha visto accumularsi sulla sua figura una miriade di sospetti in ragione della sua vicinanza alla teologia della liberazione, vissuta peraltro in una dimensione tutt’altro che rivoluzionaria in termini di guerra civile e di classe, bensì di adesione alla causa dei poveri evangelicamente vissuta. Imperversava in quel paese una politica di feroce repressione delle istanze popolari, mossa dalle ragioni della guerra fredda e intesa a consolidare sempre più i privilegi della classe agiata nei confronti dei campesinos, sfruttati e ridotti alla fame in una specie di schiavitù eternamente rinnovata.
Romero non condivideva i principi dei guerriglieri del Fronte Farabundo Martì, condannava la guerriglia di sinistra sandinista (in Nicaragua molti erano i sacerdoti arruolati), ma non era certo insensibile, proprio nel richiamo alle aperture del Concilio Vaticano II e alla Conferenza di Medellin, alle istanze fondamentali di giustizia del mondo dei poveri. Ogni voce di protesta era soffocata nel sangue, gli squadroni della morte al soldo di Roberto d’Aubuisson, leader del Partito Nazionalista ARENA (Alianza Repubblicana Nationalista) commettevano ogni sorta di assassinio, innumerevoli erano i casi di desaparecidos.
Allorché il 12 marzo 1977 Romero trova ucciso l’amico gesuita padre Rutilio Grande, altro grande campione nella lotta alla povertà, rompe ogni residuo indugio di prudenza (è lo spartiacque del suo apostolato) e la sua voce di protesta si fa sempre più chiara e perentoria. Sollecita dal presidente Arturo Molina, di destra, che venga promossa un’inchiesta, mai peraltro attuata. Se entro un mese non verrà aperta, l’Arcivescovo non parteciperà più a nessuna cerimonia di Stato. Alle sue parole di denuncia nella Cattedrale corrisponde la diserzione della classe agiata. Non lo trattengono paura di ritorsioni, messaggi anonimi, minacce ripetute di morte.
“Se mi uccideranno, li ho già perdonati tutti. In ogni caso è qui che devo morire, perché è in mezzo al mio popolo che devo risorgere”. Perciò non accoglie l’invito di Paolo VI, disposto a trasferirlo a Roma dato l’urgere della violenza. Anche parte dell’episcopato salvadoregno non si schiera dalla sua parte, la denigrazione dei cattolici di destra opera attraverso continue denunce e allarmi in Vaticano, trovando accoglienza anche presso ambienti curiali. Pressioni vengono esercitate sulla famiglia dell’arcivescovo, che però non desiste dall’offrire ogni sostegno ai poveri, interviene nel caso dei sequestri. “Qualcuno deve dire che questa tragedia non può continuare. Da una parte l’esercito uccide e brucia interi villaggi, dall’altra la guerriglia… Devo intervenire e dire la mia verità”.
Intensi sono i suoi messaggi domenicali alla radio. L’8 maggio 1979 davanti alla Cattedrale 25 manifestanti a favore del Blocco Popolare Rivoluzionario sono sterminati dall’esercito. Il nome di Romero, la fama del suo impegno e del suo disinteresse si diffondono nel mondo intero, tanto che il 2 febbraio del 1980 a Lovanio gli viene conferita la laurea honoris causa per quanto opera a favore della liberazione dei poveri.
Dopo l’attentato incessante è il pellegrinaggio alla salma da parte di 250.000 fedeli. La Messa funebre è officiata da Ernesto Corripio y Ahumada, cardinale arcivescovo di Città del Messico, su istanza del Vaticano. Un tentativo di processione nella circostanza è stroncato da una bomba dell’esercito che fa strage. Giovanni Paolo II, che non debitamente informato l’ha ammonito in occasione di una visita a Roma ad limina, si ricrede in breve tempo e già il 6 marzo 1983 si reca a pregare sulla sua tomba. In una allocuzione per il Giubileo del 2000 lo proclama nominativamente tra i nuovi martiri. Nel 1997 è riconosciuto come Servo di Dio e coll’avvento al soglio pontificio di Papa Francesco ogni remora è definitivamente superata.
La sua figura incontra ecumenicamente la venerazione di anglicani, luterani e veterocattolici. All’aeroporto della capitale è stato dato il suo nome, gli è stata dedicata una delle vie principali della città, una statua gli è stata eretta in Westminster.
Nato a Ciudad Barrios il 15 agosto 1917, quest’uomo pacifico e mite, di umile e numerosa famiglia, entra in Seminario a 13 anni e nel 1938 è inviato a Roma per compiervi studi presso l’Università Gregoriana; è ordinato sacerdote nel 1942. Rimane a Roma sei anni, protetto dal vescovo di San Miguel Duenas. A San Miguel, al ritorno, gli vengono affidate due parrocchie. Fonda un’associazione d’alcolisti anonimi. Diventa direttore del seminario interdiocesano di San Salvador e nel 1970 ausiliare dell’arcivescovo Chavez, protagonista nella conferenza di Medellin. Nel 1974 è vescovo di Santiago de Maria.
Il suo magistero, la pura luce della sua testimonianza si svilupperanno secondo una linea di pronunciata coerenza.
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