Non ricordo bene l’anno: 1960 o 1961? È netta, però, nella memoria quella serata di un dolce autunno romano. Ero seduto, con Enrico Peyretti, Presidente della FUCI, ad un tavolino di una trattoria romana in piazza Cesarini Sforza.
Noi, giovani dirigenti della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, calati a Roma per reggere l’allora pesante organizzazione giovanile, eravamo soliti incontrarci a cena in quello spazio verde perché il proprietario, un romanaccio, socio dell’associazione parrocchiale della vicina San Salvatore in Lauro, assottigliava la già modesta nota con un non indifferente sconto finale che contribuiva a rendere meno vuote le nostre povere tasche.
Tra un boccone e l’altro, Enrico cercava di persuadermi che il Concilio, da poco annunciato da Giovanni XXIII, avrebbe portato una ventata d’aria nuova nella chiesa. Stavamo ragionando su questo, quando giunse da “sor Checco” un gruppetto di quattro persone: due erano “di famiglia” perché responsabili del Movimento Studenti di AC, gli altri due mi erano sconosciuti: il prete, capelli arruffati, portava ai fianchi una larga fascia sulla talare nera e pensavo fosse uno studente di qualche seminario internazionale. Don Rovea, il prete degli studenti di AC, ce li presentò: erano don Luigi Giussani e Pigi Bernareggi, responsabili di Gioventù Studentesca di Milano. Il Movimento Studenti di AC era di “rito romano”, Gioventù Studentesca (GS) di “rito ambrosiano”.
Il discorso cadde sull’aria di rinnovamento che cominciava a spirare tra le associazioni cattoliche, aria che speravamo dissipasse le nostre paure, prima fra tutte quella di non doverci più allineare in modo bolso e goffo alle direttive dei “superiori” anche in materia così chiaramente laicale quale quella della scelta politica dei cattolici. L’anticomunismo, a quei tempi, era la pece che univa l’impegno dei cattolici.
Io mi sentivo un pesce fuor d’acqua, spaesato, intimorito perché, mentre gli altri commensali si occupavano di giovani studenti e di universitari, io mi interessavo dei più piccoli: i ragazzi. I primi si esprimevano con linguaggio raffinato, quasi ridondante, da iniziati. Io restavo taciturno, conscio dei miei limiti perché facevo parte di un movimento allegro che adoperava un linguaggio più facile e accompagnato da monellesche risate.
La chiacchierata dilagò in direzioni impreviste: una specie di tavola rotonda che mi fece riflettere, se non addirittura turbare.
Infatti, don Giussani – prima ancora che il Concilio lo proclamasse con la sua autorità – affermava che la fede è un incontro con una persona, con Cristo, non con un’idea e che da questo incontro deriva l’interpretazione di ogni realtà.
Mi sono sovvenuto di tutto ciò mercoledì 11 marzo, dopo aver assistito all’affascinante avventura di CL presentata in cortometraggio.
La fede, penso io, è un dono e nello stesso tempo una conquista, che suppone anche l’interrogazione, la ricerca e persino la critica. Cristo, per molti uomini d’oggi, che vagano verso falsi miti o illusioni o distrazioni, non può essere il solo criterio per interpretare la vita e per darle un senso.
In una società post-cristiana, secolarizzata come la nostra, una fede annunciata con la pretesa di esaurire nell’incontro con Cristo la conquista della Verità rischia di divenire un’imposizione piuttosto che una proposta: Cristo diverrebbe motivo di scontro e non d’incontro.
Prima di “avere” Cristo, l’uomo d’oggi deve “perdere” qualcosa: la saccenteria che nasconde talvolta la propria inadeguatezza, la via del successo rampante, l’avidità del guadagno, la gloria del potere. E dovrà distaccarsi dal peccato, dalla corruzione, dal desiderio di dominare perfino gli animi. Ce lo ricorda Matteo seduto coi colleghi al banco della dogana di Cafarnao e citato da Papa Francesco nel discorso a CL: per vivere un cristianesimo autentico bisogna “distaccarsi” da qualcosa.
Al contrario, voler far incontrare a tutti i costi l’uomo d’oggi con Cristo può essere un atteggiamento ambiguo, diventare arrogante contrapposizione e non un contributo per umanizzare la fede che necessita di un’adesione personale, talvolta faticosa. Quando la fede costringe la libertà diventa intransigenza e il radicalismo religioso (lo vediamo in questi giorni in tante parti del mondo!) può portare ad una fede senza morale.
Sì, Cristo deve essere annunciato, ma con la testimonianza di vita che rispecchia la Parola mite e limpida del Vangelo e non la parola degli uomini che maschera talvolta la smania di convertire tutti, dimenticando che solo Lui converte i cuori.
“Cristo s’incontra nella comunità” – mi ricordava in quella sera romana don Giussani. Ma la comunità se diventa chiusa assomiglia ad una setta. “Abbiate il coraggio di uscire da essa….” – ha chiesto ai ciellini Papa Francesco. “Non siate autoreferenziali”: una comunità chiusa non crea persone libere ed autonome, al più crea dei gregari.
Quando la comunità si preoccupa dell’affermazione della propria identità, essa è tentata dalle certezze e profila una caricatura del cristianesimo che si delinea, al contrario, nell’accoglienza, nell’apertura, nella misericordia di Dio e nella tenerezza della Chiesa.
“La fede non si salva rimanendo chiusi in se stessi…” – ha ripetutamente affermato Papa Francesco. Andare incontro agli altri è un’esigenza per i cristiani. E gli altri non siamo noi. Per combattere la frammentazione dei valori, il nichilismo, la cultura di morte non serve rinchiuderci nei convegni, riempire piazze e teatri, ma piuttosto rivolgere uno sguardo dalla finestra per ravvisare la realtà di ogni giorno e di ogni uomo.
Di quell’incontro con don Giussani ricordo l’entusiasmo che mi suscitò quando parlo della “caritativa” che GS operava nella bassa milanese.
Il mio stupore ed entusiasmo si trasformarono presto in azione: proposi ad altri amici di dedicare i nostri pomeriggi liberi del sabato e la mattina della domenica ai ragazzi di Primavalle, dove uno di noi insegnava. Ci trovavamo in uno dei quartieri più poveri di Roma. Giovavamo, costruivamo piccoli lavori, insegnavamo il catechismo, pregavamo assieme, cantavamo, facevamo merenda con la marmellata e le pagnotte che la generosità di un cardinale ci faceva avere.
Le famiglie mandavano volentieri i figli alla parrocchia. Successivamente, incominciarono a chiederci chi il vestito, chi un piccolo aiuto, chi il pacco viveri, chi le medicine… non riuscivamo a far fronte a tutto. Chiedemmo allora soccorso alla Pontificia Opera di Assistenza: e la gratuità si istituzionalizzò.
Anche don Giussani non poteva prevedere che la “caritativa” si sarebbe trasformata in cooperative e in opere, dove la gratuità poteva essere offuscata in “tutto il suo splendore e si sarebbe dissolta nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante” (Benedetto XVI), rischiando così di degenerare in clientelismo e corruzione.
Il contegno chiacchierato di qualcuno non può offuscare il prezioso bene compiuto da C.L. e dal suo fondatore. Quel tesoro di valori espressi da don Giussani possono essere riscoperti e riattualizzati per riscaldare ancora l’animo di tanta gente, orientare la loro vita e dare senso al loro procedere nella storia. Ad una condizione: “che la risposta commossa davanti alla misericordia di Dio [eviti] il compiacimento di guardarsi nello specchio che porta a disorientarsi [e conduca, viceversa] agli aspetti elementari del cristianesimo” (Papa Francesco).
Tra tanti preti “religiosi” che si consumano nel pieno amore di Dio e delle anime, tra tanti preti “sociali” che combattono povertà e mafia, tra tanti preti “teologi” nei quali lo studio prevale sulla preghiera e sull’azione, tra i preti “economici” capaci di raccattare immensi capitali, ci sono ancora oggi tanti preti che presentano il messaggio cristiano con il loro stile di vita e con la Parola che affascina: sono questi che educano elargendo non la sapienza, ma la loro fede e il loro amore, come ha fatto don Giussani.
Quello del “Gius” non è stato attivismo vuoto, ma fede trasformata in azione. Alcuni suoi discepoli non sono riusciti a colmare l’abisso tra i principi che professavano e l’azione che praticavano, diventando così mestieranti: sono come me, come tanti, forse come tutti.
Solo uno ha colmato l’angoscioso abisso tra l’essere e il dover essere: Cristo!
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