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Attualità

NON BELLIGERANTI

MANIGLIO BOTTI - 20/03/2015

In ritirata dalla Russia

In ritirata dalla Russia

La guerra è come una malattia, che ti capita lì per lì. Anche se a volte sei tu a volerla o, in qualche modo, a organizzarla per difenderti perché – come si dice – la pace, che è cosa più difficile, si fa in due, mentre la guerra la può fare anche uno da solo. In tema di guerre e di già proclamate discese in campo (sotto l’ombrello dell’ONU… ) per non farsi travolgere da nuove orde barbariche, si dovrebbe dire qualcosa del nostro popolo, che per la guerra di offesa proprio non sarebbe tagliato, oltre che impedito dalle sue leggi. Ma molto onore sa farsi in zone tumultuose del mondo (Libano, Kosovo, Afghanistan…) in operazioni così dette di peace keeping, che dalle guerre sono devastate.

A dimostrazione, poi però purtroppo subito smentita, di una certa idiosincrasia italica (o prudenza) per la guerra fu coniato all’inizio della seconda guerra mondiale un termine presto entrato nei dizionari e poi anche nel libri di storia: non belligeranza. Buon per noi se tale motto fosse stato sostenuto a lungo, e buona cosa sarebbe stata anche per Mussolini che forse sarebbe morto nel suo letto.

Invece, quella volta, l’Italia “belligerò”. Non eravamo preparati e nemmeno predisposti come poi gli eventi hanno dimostrato. Eppure ci sono state, proprio nella seconda guerra mondiale, alcune situazioni dalle quali i nostri soldati uscirono in un certo qual modo vittoriosi, pure nelle sconfitte o, addirittura, nelle disfatte, ammirati da un nemico che in fatto di guerre aveva più esperienza, più grinta, più mezzi e più preparazione degli italiani. Pensiamo, per esempio, alla battaglia di El Alamein, in Egitto, le cui fasi conclusive si svolsero negli ultimi giorni dell’ottobre e ai primi di novembre del 1942, quando i nostri soldati, insieme con i tedeschi, si trovarono a fronteggiare le forze britanniche comandate dal generale Montgomery, quello stesso Mongomery che la leggenda aveva soprannominato Martini, come il cocktail, che è composto da sei parti di gin e da una di vermut dry, perché il generale non attaccava mai se non in grande vantaggio. In un rapporto così sfavorevole e scombinato, la divisione Folgore – erano partiti in cinquemila, più o meno, da Pisa e tornarono in trecento, fra ufficiali e truppa – fu annientata, ma non battuta. E non a caso una scritta incisa in una lapide, nei pressi del sacrario, fa testo di quell’orribile battaglia e del comportamento dei soldati italiani: “Mancò la fortuna non il valore”.

La frase retorica fin che si vuole rende tuttavia onore al nostro Paese e sgombera anche dispregiative affermazioni e considerazioni che nei nostri confronti si sono protratte negli anni. Come a dire anche che il coraggio e il valore degli italiani si manifestano nell’estremo, e non soltanto nelle guerre non volute ma ugualmente combattute, nel momento in cui quel famoso “stellone” che sempre dovrebbe proteggerci scompare dietro le nubi di notti tempestose.

Un’altra grande, grandissima prova di valore gli italiani la diedero – e anche in questo caso si trattava di una sconfitta – in un ripiegamento che è passato alla storia con il nome di “ritirata di Russia”, avvenuto nel mese di gennaio del 1943, quindi a circa due mesi dal combattimento di El Alamein, in tutt’altre condizioni meteorologiche, com’è facile immaginare. Ma quando ci si trova a combattere per la sopravvivenza, le situazioni meteo sono soltanto un corollario, situazioni dolorose, ma un corollario.

Sulla ritirata di Russia sono stati scritti molti libri di memorie, che parlano non solo dell’evento storico e bellico, ma che sono prove anche della capacità di sacrificio e di sofferenza della generazione che ha preceduto quella di chi scrive queste note (pensiamo a Mario Rigoni Stern, a Giulio Bedeschi, a Nuto Revelli), la stessa generazione che poi gettò le basi dell’Italia in cui viviamo e che non sappiamo dire se sono state onorate o no. Ma pensiamo in particolare a un libro – La Ritirata di Russia, appunto – che mezzo secolo fa, vent’anni dopo la ritirata, scrisse un bravissimo giornalista, Egisto Corradi, di Parma, già inviato del Corriere della Sera e poi al seguito dell’amico Indro Montanelli nell’avventura del Giornale.

Corradi – all’epoca aveva ventinove anni –, da ufficiale della divisione alpina Julia, fu un protagonista della Ritirata: “Come un fuscello – ha scritto – tra altri centomila fuscelli presi in un gorgo o in una rapida…”. È passato tanto tempo da allora, più di settant’anni, ma se fosse possibile il suo libro, che è qualcosa di più di un grande reportage – è infatti un trattato di sacrificio e di umanità –, dovrebbe essere adottato nelle scuole. Non v’è retorica e non v’è compiacimento nelle sue parole: “Quel che amo nei soldati alpini – ha detto Egisto Corradi – è l’assenza di spirito aggressivo e di atteggiamenti arditistici… L’esaltare il bere il vino e la grappa sarà di dubbio gusto, lo ammetto; ma è tutt’altra cosa che il proclamarsi spavaldamente fulmini di guerra e il considerare il combattimento quasi come un mezzo per versare il sangue altrui…”.

La Ritirata di Russia fu un’impresa di cui ancora oggi v’è memoria e onore nella nostra storia. Un’impresa terribile e disperata: quasi quattrocento chilometri percorsi nella steppa e nelle tempeste di neve, di notte a quaranta gradi sotto zero, tra combattimenti, appostamenti, ricerche di rifugio, fughe…

 Alla fine gli alpini, della Julia e della Tridentina, riuscirono, quasi senza saperlo, a uscire dalla “sacca”. Gli stessi russi hanno riconosciuto che solo gli alpini dell’Armir non furono sconfitti.

 Racconta Corradi che per portare la Julia in Russia erano occorsi cinquantacinque treni. Per il rientro dei superstiti di quella strage, di quella grande prova di sacrificio ne bastarono tre, tanti erano stati i morti.

“Il mio treno – racconta Corradi – valicò il Brennero la notte sul 19 marzo 1943, giorno di San Giuseppe. Festeggiammo l’evento aprendo finalmente le mie scatolette di carne – Ndr: due scatolette che Corradi aveva sempre portato con sé, quasi fossero due amuleti –. Erano squisite. Quasi tutti eravamo sotto il nostro peso normale di molti chili, anche di dieci e venti. Eravamo pelle e ossa. Avevamo i visi affilati, gli sguardi spenti, le teste vuote, gli abiti a brandelli e bruciacchiati. Al di qua del Brennero era già caldo e verde, soffiava un dolce tiepido vento. Venuto il giorno ci affacciammo ai finestrini. Il treno scendeva la valle dell’Adige, l’Italia ci apparve come uno straordinario meraviglioso giardino”.

 

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