Il valore letterario della letteratura dialettale mi è stato insegnato, in quarta ginnasio, dalla mia professoressa di Lettere, la ferrarese Amalia Taddia, fine cultrice della cultura greca, latina e italiana. Sono passati oltre 40 anni da allora e il ricordo così vivo la dice lunga sia sul valore trasmesso. La storica docente del “Cairoli” di Varese ci aveva consigliato la lettura di “Due milanesi alle piramidi” di Luraghi, scritto con l’ausilio voluto del pastȋche linguistico che rafforzava la dignità letteraria della commistione tra dialetto e italiano. Lo hanno infatti riproposto nel tempo insigni figure del panorama letterario (Gadda de “L’Adalgisa “ ad esempio fino al contemporaneo Camilleri) ma lo stesso Manzoni ha risciacquato i panni in Arno per liberare la propria opera da dialettismi e francesismi, nell’intento di costruire un prototipo di lingua nazionale…. Già perché il “sciur Lisander” parlava francese o dialetto milanese nella propria quotidianità… Così, quella che era per me la normalità di una lingua imparata spontaneamente nel quartiere varesino di Valle Olona attraverso le pieghe della vita di ogni giorno tra la gente comune o nel contesto familiare, come accadeva nella maggior parte delle case varesine, è divenuta anche una spinta culturale rafforzata dalle indicazioni di una docente che amava la letteratura in senso lato e ce ne trasmetteva la solidità e l’apertura valoriale. Ho letto il romanzo di Luraghi diverse volte, sebbene ormai non più edito ma consegnato agli acquisti online, ho apprezzato nel tempo il suo valore e sono felice di avere assorbito in modo indelebile il valore della cultura popolare nella mia formazione, tanto da scegliere consapevolmente sia di dare vita una quindicina di anni fa, assieme a un noto musicista, un apprezzato primario di un Ospedale della provincia e a un bravissimo attore, un gruppo cabarettistico dialettale (i “Grass the roast”), sia di avere partecipato con entusiasmo a tre edizioni consecutive del concorso di poeta bosino indetto nella città capoluogo. Scrivere in dialetto è diventata una esigenza e non mi vergogno di dirlo con trasparente chiarezza: è il modo per riannodare i fili con un passato forte di tanti significati sociali, civici e culturali. E’ il modo per assorbire dentro la propria personale cultura il valore di ciò che siamo stati e che non vogliamo relegare ai ranghi inferiori del panorama letterario. Non più tardi dello scorso anno ci siamo ritrovati tra compagni di classe dell’allora liceo varesino e tra di noi Gianmario Tamborini, che con assoluta naturalezza ci faceva gustare ai tempi della scuola superiore tra un intervallo e l’altro ( ma spesso con i beneplacito di raffinati docenti come il mitico prof. Belli, che padroneggiava con familiarità oltre il greco e il latino anche il sanscrito ) pezzi del teatro di Felice Musazzi che conosceva a memoria. Ci sono ancora tutti quei sottili giochi di parole dialettali nella nostra memoria e, indipendentemente dalla provenienza di noi compagni, ce li ricordiamo come un modo bello e unico di vivere il valore della cultura che sa unire oltre le differenze. Ora non entro nella polemica mediatica tra esponenti della città di Varese e la compagnia del Legnanesi, sia perché è chiaro da che parte mi collochi, sia per non fare scadere la dignità del dialetto a puro programma preelettorale. Ma resto fermamente convinta che, come ogni napoletano o siciliano si sentirebbe depauperato di una parte di sé se venisse in qualche modo denigrato il valore della tradizione musicale o teatrale della propria cultura, così mancherebbe alla nostra storia provinciale un patrimonio di vita, quotidianità, modi d’essere e pensare come quelli che i Legnanesi hanno saputo e sanno recuperare sulle scene.
Luisa Oprandi
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