Sul cellulare trovo una chiamata da un numero sconosciuto. Richiamo. Mi risponde una voce femminile: “Sono V. ti ricordi di me? Ho bisogno di parlare a te e a Lidia. Sai, solo dopo la sciagura, ho incontrato Dio”.
A V. due mesi fa un infausto destino ha rubato, in lidi lontani, la figlia. Mentre l’ascolto, mi avvio con mia moglie verso la chiesa per la messa vigiliare. Suggerisco a V. di non abbandonarsi solo in Dio, ma di affidarsi anche alla sapienza e al cuore di una monaca benedettina che accoglie, nella città dove risiede, persone in cerca di senso, di luce, di consolazione.
Passo il cellulare a mia moglie, che ascolta e che la rincuora dicendole: “La fede, nei momenti tragici come i tuoi, può essere un appiglio…”. V. la interrompe subito: “No, no, la fede non è un supporto: questo può sparire da un momento all’altro, non è un pretesto la fede… la fede è la roccia sicura che mi sostiene e mi protegge…”. Rimango attonito: non riconosco più la V. brillante, frivola, intelligente, anche se più festaiola che zelante nello studio.
Le campane m’invitano ad affrettarmi: “Vieni a trovarci… Ecco il mio indirizzo di e-mail. Grazie per aver pensato a noi!”.
La parola di Dio dell’Eucarestia vigiliare è centrata sulla figura di Abramo. Fin da piccolo, mi ha sempre sconvolto la narrazione della storia di Abramo. Mi sembrava un mostro. Solo gli orchi sacrificano i propri figli anche se per obbedire alla legge di Dio. “Com’è possibile che Dio ordini ad un padre di uccidere il proprio figlio?” – mi chiedevo.
Nell’età matura, ammirando la tela di Rembrandt che raffigura con assoluta fedeltà al testo sacro la scena narrata in Genesi mi sono riconciliato con Abramo. Egli, barbuto, capelli arruffati, volto rigato dalle rughe sta per immolare il figlio Isacco. Interviene un angelo che blocca la mano e Abramo lascia scivolare il pugnale ricurvo vicino al figlio, nudo, che è inondato di luce.
La gente segue con attenzione e mostra di capire il linguaggio pittoresco, agile, immaginoso e pulito della Genesi; un po’ meno il Vangelo di Giovanni, così profondo, speculativo, teologico.
Il Genesi è più vicino alla poesia, alla narrazione; in esso c’è la storia di Dio che sceglie un popolo e stabilisce con esso un’alleanza. È un racconto che crea un ponte tra le generazioni.
“Abramo è mio padre” – penso. Dalla sua genealogia discende Gesù, in cui anch’io sono nato. Con Abramo ho una parentela, un’affinità, una somiglianza. Come io capivo la severità, i desideri e le reticenze che c’erano nel cuore di mio padre, così anch’io posso chiedere a Gesù, che discende da Abramo: “Perché mi capita questo? Perché tanta distanza tra noi due? Perché non mi ascolti? Perché mi fai angustiare?”.
La vicenda, la paura, la solitudine di Abramo sono un esempio anche per me: mi è padre per quel suo atteggiamento di disponibilità, mi è padre perché la mia vita, le mie tradizioni, la mia cultura discendono da lui e io devo trasmettere queste tradizioni perché esse continuino la vera conoscenza di Dio che cammina con la storia d’oggi. Mi è padre perché è “uscito” dalla sua terra come mio padre è uscito dalla sua famiglia per unirsi ad una donna che ha generato me e come io sono “uscito” dalla mia per unirmi ad una donna che ha generato ciò che Dio ha creato.
Ma Abramo non mi è padre solo per origini di sangue, ma per avermi trasmesso, tramite Isacco, Giacobbe, i profeti, Gesù, i suoi discepoli, i miei avi, i miei genitori la fede.
Abramo è padre anche di Mohammed che è uscito dalla sua terra per cercare accoglienza tra di noi. Ed è padre di tutti i Levi che hanno vagabondato sulla terra e sono stati braccati ed angheriati nei campi di concentramento.
Voglio pensare che sia padre anche di coloro che si sottraggono allo sfolgorare della Verità (“che vi farà liberi” – mi ricorda Giovanni) perché essa li costringerebbe a mutare mentalità, ma vivono una vita intrecciando ricerca e carità: al contrario di chi professa la fede nell’arida tradizione che impedisce la vera conoscenza di Dio o esperimenta una fede forte, ma ambigua, che si serve delle opere, per ostentarla, piuttosto che viverla in mezzo alla compagnia degli uomini.
Non mi piace una fede esasperatamente politicizzata, che parla solo di azione e poco, e male, di Dio e, se lo fa, lo chiama in causa come risolutore di tutti i problemi sociali.
E non mi garba nemmeno la fede sacralizzata, devozionistica, magica, depurata dal mondo, adoratrice di un Dio lontano, chiamato in causa come per risolvere faccende private.
E non mi piace nemmeno l’eccessiva ansia per il futuro, la paura per l’invasione del nemico che portano alla difesa, a chiudersi nella cittadella assediata e minacciata o – al contrario – a bandire crociate, dimenticando che il cristiano non è un “crociato”, ma un uomo “segnato dalla croce”.
La fede, penso io, è impastata con la vita, con la storia, dove azione e contemplazione si accordano in pienezze d’armonia.
Mi piace credere che la storia di Abramo sia la stessa degli uomini di oggi, che si dipana attraverso una miriade di storie umane, umanissime come quella di V., che ha colto l’oggi di Dio nel proprio oggi, fatto di prova, di sofferenza, forse di lotta interiore.
Sulla parola di Dio, Abramo fonda la sua fiducia e inizia una storia che si riflette sui volti, le opere e il pensiero di piccoli e grandi protagonisti.
I miei nipoti non sono tenuti a conoscere ciò che non hanno vissuto in prima persona, ma io ho l’obbligo di trasmettere la conoscenza di questa storia che padroneggia il tempo. Può darsi che la chiesa “sia divenuta per molti l’ostacolo principale alla fede” (Ratzinger) ma resta il fatto che dalla fede dipende il senso dei sensi della vita.
Questa storia, penso, cammina tra i progressi e le regressioni dell’umanità ed è storia di salvezza, un cammino verso una meta: il Regno di Dio.
Uscito dalla chiesa, godo di più delle piccole cose della vita: dell’aria dove corre un respiro di primavera, anche se mi fa rabbrividire, degli alberi che si vestono delle piccole gemme, dello spicchio di lago limpidissimo, dell’orto dove germoglia la pallida lattuga attorno alle cornici ben ordinate delle aiuole.
Rifletto pensando ad un pensiero di Simone Weil, l’intellettuale ebrea francese, morta a soli 34 anni: “Se deviamo da Lui per dirigerci verso la verità non faremo un lungo cammino senza cadere nelle sue braccia”.
Così è capitato ad Abramo. Così è capitato alla mia giovane amica V.
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