Mi sono chiesto mille volte perché amo così tanto lo sport, perché alla mia età prendo la bici anche nelle fredde giornate invernali e punto verso la bellezza del paesaggio varesino, così limpido, così terso, così invitante per chi ama la vita all’aria aperta, per chi vuole sognare ancora per un attimo in quell’infinito cosmico che abbiamo imparato ad amare leggendo le poesie di Giacomo Leopardi, il pessimista amante del bello.
Cosa c’è in quella bici che mi perseguita da quando ero bambino e volevo pedalare più forte dei miei compagni per arrivare primo? Che senso aveva arrivare primo a quell’età? Era comunque bellissimo, dava una sensazione di forza, di bellezza, ci si sentiva più grandi, s’imparava a capire che potevamo farcela e che l’età non era sempre un limite. Ogni azione era finalizzata, anche la più banale. Lottare, sfidare, dimostrare, essere primi era il sogno di tutti, anche di quelli che preferivano i libri.
Una passeggiata in bici, una partita a calcio, una partita a tennis, a pallavolo, a ping-pong, una corsa a piedi, tutto lasciava presagire uno spunto finale, qualcuno che avrebbe tagliato per primo il traguardo, qualcuno di cui si sarebbe parlato e che sarebbe diventato il più osservato dalle ragazze. Una strana forma di divismo, eppure il divismo serpeggiava nei nostri pensieri, nelle nostra ragazzate. Si trattava sempre di stabilire chi era il più: il più bello, il più desiderato, il più intelligente, il più forte, il più furbo, il più amato, eppure eravamo ragazzini abituati alle aie, alle corti, alle periferie, alla zuppa col latte, ai biscotti della nonna, alle figurine, alle biglie, con le quali passavamo ore e giorni curvi su montagne di sabbia preparate dai carrettieri per la gioia dei muratori.
Eravamo degli sportivi senza saperlo, ci buttavamo in mille sfide come se la strada o il campo fossero l’arena della felicità. Ricordo che per un paio di guanti in pelle uno più grande di noi mise in scena un combattimento di box che aveva come protagonisti il sottoscritto e Giancarlo. Non ricordo il numero dei round, ma ricordo benissimo che persi per fuori combattimento e rientrai a casa con le pive nel sacco, cercando di evitare mamma e papà già abbastanza nervosi per avermi dovuto chiamare. Il movimento era il nostro passatempo preferito. Eravamo sempre sudatissimi, sfiniti, mangiavamo dieci ghiaccioli alla menta, bevevamo non so quante gazzose, passavamo più tempo a mangiare gelati o a bere bevande ghiacciate che a giocare.
Con la palla facevamo tutto, non c’era solo calcio. Pallavolo, pallamano, palla avvelenata, palla contro il muro e poi c’era lui, il pallone, fatto di vecchi ricami di cuoio: slabbrato, spelacchiato, grande come una luna piena. Chi lo possedeva era un fortunato, uno che poteva contare su genitori con le tasche piene. Spesso ci scambiavamo le bici per capire se quella dell’amico andava più forte. Eravamo dei sognatori, dei ragazzini senza grilli e con tanta voglia di divertirci. Giocavamo per ore nei campi, in mezzo a sterminate pianure di erba medica, tra canti di grilli e serenate di rane nascoste nei canali che limitavano i campi. Correvamo, saltavamo, ci arrampicavamo, costruivamo capanne, ci preparavamo costumi di scena per interpretare al meglio storie d’indiani, di pistoleri, di sceriffi. La nostra vita era fuori di casa, all’aria aperta, lontano dal mondo, da quel mondo degli adulti che sentivamo lontano anni luce, eccezion fatta per i genitori, le sorelle, i fratelli, i nonni, i cugini. Avevamo un nostro mondo e in quel mondo costruivamo giocando il nostro futuro. Giocare era l’imperativo categorico. Giocare sempre. Facevamo i compiti con la rapidità di un lampo per poi essere lì a vivere le nostre storie.
Tra ragazzi c’era una benevola complicità. Le marachelle erano all’ordine del giorno, ma non avevano il taglio della mascalzoneria studiata, erano trasgressioni nate lì per lì senza volontarietà. Tra noi c’erano i furbi. I furbi ci sono sempre stati, sono stati le punte avanzate di un’evoluzione naturale che finiva quasi sempre in sonore sgridate o in ceffoni dati con un sacrosanto trasporto. Un tempo c’era la sberla, punizione letale data al culmine di una rabbia materna o paterna che lasciava le cinque dita stampate sul viso o sulle gambe. Avevamo paura della sberla e quindi facevamo di tutto per non prenderla, era furbizia anche quella. Non importava che la sberla fosse data dai genitori o da terzi, quando ci voleva ci voleva, ne erano tutti convinti, perché allora anche gli psicologi domestici sposavano la tesi della punizione. I genitori non proteggevano con riserva, erano molto consapevoli del carattere dei loro figli e il rispetto per loro era legge, da qualunque parte fosse. Le regole erano regole, non si poteva sgarrare, bisognava filare diritto.
Era così alle elementari, alle medie, alle superiori, all’università ed era così anche dopo, quando qualcuno rientrava in casa storcendo il naso di fronte a un piatto di spaghetti meno cotti del solito o conditi con poco sugo. Era così perché altrimenti il <babbo> avrebbe alzato la voce brandendo le cinque dita come segno inconfondibile della legge familiare. Era così perché nella famiglia, nella scuola, all’oratorio e nella società civile vigevano le regole e tutti, nessuno escluso, dovevano rispettarle. Si cresceva con le regole, ci si alzava con le regole e si andava a letto con le regole. L’ora fissata era quella, non si poteva sgarrare. Nessuno lo avrebbe fatto, anche là dove il <babbo> era più avanti, più illuminato.
Finiti gli studi siamo andati a fare il servizio militare e anche lì c’erano regole da rispettare eccome! Bisognava dire signorsì, anche quando avresti voluto dire signornò. Lì per lì non capivi tutti quegli ordini,quelle cose che ti sembravano anche un po’ assurde, ma dopo tanti anni chissà perché ogni tanto ti capita di parlare di quando eri a militare: di quell’ufficiale, di quel sergente, del maresciallo, degli amici che hai incontrato, del gavettone che ti hanno fatto, della vita in caserma e di quella vissuta in giro per i “campi” invernali e quelli estivi. Con la divisa ti sentivi un dio, ti sembrava di dominare il mondo, era così anche se tutto era illusione, stranezze di un destino che ti metteva in mano un fucile, una mitragliatrice, una pistola, una bomba a mano, la bomba di un mortaio da 120 per colpire il nemico. Il nemico? E chi era il mio nemico? Ancora oggi non lo so e non voglio saperlo, non mi interessa e poi non credo che ci si possa odiare al punto di uccidersi.
È una cosa assurda. È assurdo che ci sia gente che metta le bombe nella cintura di bambine per farle saltare. È assurdo che si sgozzino le persone come se fossero animali. Eppure l’uomo è capace di fare di tutto. È persino capace di uccidere chi gli ha dato la vita, chi ha sudato e sofferto per dargli la possibilità di amare le forme, i colori, i profumi, di amare l’amore. È persino capace di uccidere in nome di Dio, come se chi ci ha creato, offrendoci la più bella delle opportunità, dicesse a qualcuno di compiere misfatti. Eppure è così. Rabbia, vendetta, rancore, odio, violenza, dominano incontrastati la scena umana, lasciando nel terrore e nello sgomento.
Alla fine capisci che è molto meglio lo sport, una partita a calcio, una corsa in bicicletta, una partita a pallavolo e ti domandi come mai gli uomini siano così stupidi da insegnarti a sparare ad altri uomini. Terribile! Meno male che hai sempre con te la possibilità di correre, camminare, giocare, vivere beatamente la bellezza del movimento. Lo sport? L’unico vero amico capace di non mentirti mai, neppure quando al culmine della pigrizia lo lasciavi nella polvere del solaio come un rifiuto buttato. Cos’è rimasto di tutto quello che sembrava l’infinito esistenziale? È rimasta la voglia di essere onesti, di vivere facendo sempre qualcosa di buono, qualcosa per cui valga la pena essere uomini.
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