Nel corso del ‘900 le scuole psicoanalitiche sorte dalle ricerche di Freud e giunte all’età dell’oro nel pieno del ‘900, hanno rivoluzionato anche l’ottica della cura di sé. Epicuro con il «quadrifarmaco» e altre scuole antiche si limitarono ad affidare le loro «cliniche del desiderio» ad «esercizi spirituali» mirati. Le cliniche psicoanalitiche – a loro modo un «esercizio spirituale» – indagano il nucleo più remoto della psiche per rimuovere gli ostacoli sulla via dell’inconscio. Il terapeuta interpreta i segnali contraddittori e impalpabili provenienti da quel territorio magmatico dove regnano instancabili e indistruttibili desideri rimossi che si manifestano in forme sia patogene (le nevrosi vere e proprie), che ordinarie (i sogni, i lapsus…). Problematizzando le relazioni tra oggetto e soggetto del desiderio, i metodi di tali scuole sono divenuti così anche pratiche di sostegno alla ricerca autobiografica per migliorare la conoscenza di sé e di rimbalzo la vita dei pazienti. Due soli scolarchi, tra i tanti, risultano utili a riflettere sui rapporti tra desideri e stili di vita: Sigmund Freud e Jacques Lacan. Tre sono in questa direzione gli apporti di Freud.
1) Come il bisogno, il desiderio è connesso alla cosa mediante il sóma: è il corpo a conferirgli energia libidica e a pretenderne la soddisfazione, la «scarica pulsionale». Per ottenerla deve però, diversamente dal bisogno, varcare i confini minati della censura e della rimozione ed entrare nella sfera cosciente. Perciò, il significato del desiderio sta non nella cosa ma nel soggetto, in particolare nelle «tracce mnestiche» che ne affollano l’inconscio.
2) Freud vede nel soggetto un terreno permanente di conflitto tra le sue diverse istanze psichiche – Es, Io e Super-Io – e tra queste e una realtà esterna fuori del nostro controllo: quella degli altri con i quali entriamo in relazione; e quella sistemica delle relazioni impersonali che denominiamo «civiltà», o «cultura». Ma il soggetto non è l’io consapevole della tradizione filosofica. Se già «l’Io non è padrone in casa propria», tanto meno sarà padrone del desiderio, che lo sovrasta e decentra. Tutti esperiamo la contraddittorietà del desiderio, la sua ambiguità, il suo sfuggire ad ogni possibilità di circoscriverlo, di tracciarne chiaramente i confini. In Freud l’Io e il Super-Io non desiderano quel che desidera l’Es; il Super-Io pretende troppo dall’Io e sacrifica del tutto l’Es, depredandolo di energia libidica; la realtà, a sua volta, spesso scontenta tutte le istanze, anche se con la protesi dell’organizzazione sociale garantisce una certa sicurezza contro lo strapotere della natura, mitiga l’umana impotenza davanti alla malattia e alla morte e protegge per quanto può dalle minacce altrui. Il punto di miglior equilibrio sta nell’accrescimento continuo e interminabile della consapevolezza che l’Io ha di sé e della realtà.
3) Di qui, ne Il disagio della civiltà (1930), Freud mostra l’inconciliabilità tra le pretese di felicità individuali, rette dal principio di piacere, e le barriere insormontabili della civilizzazione, rette dal principio di realtà. Quella protesi che consente di soddisfare molti bisogni, ostacola – in cooperazione con le difese dell’Io e del Super-Io – il realizzarsi di molti desideri.
Dai contributi freudiani discendono altrettanti tasselli della filosofia degli stili di vita. 1) Dal desiderio della cosa che si impone all’Io occorre passare all’Io desiderante, spezzando il più possibile i nostri automatismi psichici e filtrando i condizionamenti esterni. 2) Proprio perché l’Io non dispone della trasparente consapevolezza del Soggetto dei filosofi ma è pur sempre a quella meta che occorre guardare, le scuole psicoanalitiche e una peculiare «terapia delle idee», ossia le pratiche di consulenza filosofica, possono cooperare – nella mutua supplenza dei limiti di ciascuna – nel promuovere percorsi utili alla conoscenza di sé. 3) Infine, se la vita umana non è realisticamente votata alla felicità, questa aspirazione può essere raggiunta solo in forme circoscritte, più o meno dense, a condizione di saper abitare i nostri limiti, di accogliere la frustrazione delle nostre aspettative e di interrogare in modo corretto esperienze e vissuti.
Più controverso è l’apporto di Herbert Marcuse là dove, muovendo dal «disagio della civiltà», auspica una società non repressiva che liberi il desiderio dalle catene del consumo. Il regno della tecnica nei sistemi industriali avanzati consente «all’uomo di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di utilizzare la ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo, i suoi desideri, i suoi istinti di vita». Ogni mutamento non repressivo nella vita sociale rende più conformabili i nostri stili di vita al desiderio, così come ogni mutamento nei nostri stili di vita in direzioni più libere facilita i primi. L’interdipendenza tra i mutamenti nel mondo e quelli negli stili di vita potrà condurci dal regno della repressione a quello della libertà. Normalmente si obietta a Marcuse che vi è sì più libertà di scelta di come vivere e una maggiore pluralità di offerte, ma che in cambio gran parte dei macroprocessi che hanno mutato il mondo non sono andati nelle direzione da lui auspicata. La tecnica e il mondo produttivo non hanno liberato il desiderio, semmai lo hanno conformato, e hanno tolto la possibilità di consentire quel maggior tempo per sé che è la precondizione di un otium (in greco schole) libero e costruttivo.
Muovendo dai suoi studi sull’anoressia, derivante da cure non appropriate alle richieste inconsce del bambino, Lacan costruisce una costellazione tra bisogno, desiderio e domanda. Il desiderio di ottenere una soddisfazione assoluta deforma la domanda, che è sempre rivolta ad un altro, nella fattispecie come domanda di riconoscimento del proprio desiderio d’amore e di cura. Ne deriva una svolta cruciale: «Il desiderio dell’uno trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro», e soprattutto di essere, in quanto desiderante, oggetto del desiderio dell’altro. La potenziale mutua corrispondenza di questo desiderio pone le condizioni per il riconoscimento reciproco.
Ma perché il riconoscimento tra i due «altri» sia davvero possibile, occorre la mediazione del linguaggio. «Il desiderio è qualcosa di infinitamente più elevato di una tendenza organica, esso è legato in primo luogo al linguaggio per il fatto che è il linguaggio che gli fa posto, e che la sua prima manifestazione nello sviluppo dell’individuo si manifesta al livello del desiderio di sapere». Il desiderio di riconoscimento sottomette al desiderio nelle condizioni poste dall’altro attraverso il suo universo linguistico, il solo che consenta di poter introdurvi il riconoscimento del proprio. L’universalità del linguaggio fa sì che il desiderio sia – in conclusione – «il desiderio dell’Altro», originariamente della figura della madre e a seguire di tutta la gamma delle figure simboliche che caratterizzano le relazioni umane.
Per giungere alla personalizzazione del desiderio, al desiderio di riconoscimento tra un «Io» e un «Tu», occorrerà distanziarsi dall’Altro desiderante sul singolo. Non dunque un desiderio narcisistico di possesso, ma un desiderio di incontro dialogico, di cooperazione discorsiva, dove siano riconosciute le differenze, le singolarità, con i pregi e i limiti di ciascuno; un desiderio che non riduca l’altro a cosa, a termine neutro, a strumento; un desiderio positivo, che levi di torno le insidie di un altro dei dieci desideri descritti da Lacan, il più pericoloso, quello di morte.
Di qui mi limito a nominare Martin Buber, il massimo teorico della relazione «Io-Tu», per chiudere con un ultimo «istruttivo» riferimento a Freud. Secondo il padre delle psicoanalisi, occorre sublimare sul piano inconscio la carica libidica dell’Es che prende energia dal soma per rendere possibili tanto la metamorfosi dell’Eros in Agape, che rafforza il legame sociale, quanto l’instaurarsi degli ideali dell’Io attraverso la mediazione del Super-Io, che configura la nostra eticità. Parlare in termini non psicoanalitici, e dunque non inconsci, di sublimazione significa parlare, in termini strettamente filosofici, di un’istanza di autotrascendimento che in forme diverse è propria di ogni cultura e civiltà.
Siamo ormai alle soglie del tema dell’ultimo articolo – per la gioia dei miei quattro lettori –: il desiderio di Dio.
(5-continua)
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