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Società

CAINO, ABELE, FRANCESCO

FRANCESCO SPATOLA - 13/03/2015

Caino_AbeleFin da ragazzo mi ha sempre lasciato interdetto il testo biblico su Caino e Abele, non tanto per l’odio fratricida che vi si racconta come paradigma originario della violenza tra gli uomini, così chiaro e comprensibile e vicino ai drammi dell’esperienza individuale e collettiva di tutti i tempi, ma per quell’apparente origine divina dell’odio, che si radica nell’immotivato rifiuto di Dio verso i doni di Caino e nella selvaggia invidia e gelosia che nasce in lui quando Dio gradisce i doni di Abele.

Uno sconcerto intimo che ho riprovato nel recente incontro decanale varesino di “spiritualità per le persone impegnate nelle realtà sociali e politiche”, promosso come tutti gli anni dalla Diocesi milanese e in questo 2015 incentrato sulla “capacità di affrontare il male senza soccombere” a partire dall’inizio del quarto capitolo della Genesi, così crudo essenziale ed atroce nel mettere in scena il conflitto e l’omicidio tra fratelli. “Trascorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato. … Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so, sono forse io il custode di mio fratello?”. Il Signore riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto …” … Disse Caino al Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco, tu mi scacci … e chiunque mi incontrerà mi ucciderà”. Ma il Signore … impose a Caino un segno, perché nessuno incontrandolo lo colpisse”.

Nella lettura simbolica ed avvertita dei condizionamenti culturali che ci viene naturale oggi, le mutate condizioni storiche e sociali rispetto all’ambiente agricolo-pastorale della Bibbia rendono incomprensibile la preferenza di Dio e la catena di violenza che ne segue: tra pastorizia ed agricoltura, vien più facile sentirsi prossimi al mondo agricolo di Caino, stanziale ordinato e incline al progresso, rispetto al mondo pastorale di Abele, nomade caotico ed arcaico. Le colture contro le greggi, la ricchezza sicura che deriva dal ciclo controllato della terra, delle stagioni che si ripetono, dei raccolti che si accumulano, contro la precarietà affannosa dei beni animali, della sorte degli armenti, dell’esposizione sistematica alle intemperie, ai predatori ed ai predoni, alle transumanze incerte e rischiose.

A percepirli con gli occhi e gli orecchi di oggi, il mondo dell’agricoltura rimanda a immagini e sensazioni di pace, di accordi e cooperazione tra vicini, di migliorie e sviluppo, di paesaggi armoniosi e floridi, di famiglie serene; il mondo della pastorizia è sinonimo di violenza belluina, di isolamento animalesco, di padri-padroni, di paesaggi aspri impervi e scabri, di abigeati faide e vendette infinite. “Pastori” ci fa pensare ai rapimenti in Sardegna ed Aspromonte, all’origine pastorale della mafia agraria, della ‘ndrangheta e della delinquenza albanese, alla ferocia dei miliziani serbi, alla povertà immutabile degli entroterra siciliani, sardi, greci, balcanici.

Insomma, se avessimo scritto oggi il racconto biblico, l’assassino sarebbe stato il pastore Abele e la vittima il contadino Caino; se nell’Antico Testamento avviene il contrario, se il vizio è contadino e la virtù è pastorale, sembrerebbe da attribuire all’arretratezza culturale dello scrittore biblico, alla nostalgia per il tempo andato, per l’origine d’Israele nel pastore Abramo, infine alla predominanza socio-politica della classe dei pastori contro quella degli agricoltori nel sistema di potere israelita.

La meditazione nell’incontro decanale si è poi orientata su altre articolazioni del tema centrale dell’affronto coraggioso e pacifico del male, altri temi che pure il racconto biblico evocava: da come convivere nelle/tra le differenze a come cooperare e lavorare insieme, da come dominare l’impulso efferato dell’ira a come liberare le coscienze dal sottosviluppo etico attraverso la sfida educativa, da come custodire i fratelli prescindendo dalle facili sintonie spontanee e prendendosi cura della fraternità, a come recuperare il legame con la propria terra e le radici del proprio impegno, sino a come reinserire chi ha sbagliato facendolo tornare dall’esilio del suo cuore. Ma l’inquietudine sottile su Dio che, in modo arbitrario e incomprensibile, induce in tentazione gli uomini, tant’è che nel Padre Nostro lo si deve pregare di “non indurci in tentazione”, era accantonata ma non risolta.

Pur facendo la tara del condizionamento culturale, qual’è il senso teologico della gratuita ma arbitraria preferenza di Dio per Abele? Non sembra prevaricazione perfino la protezione misericordiosa che Dio accorda a Caino dopo il delitto, vietando la vendetta di chiunque su di lui, quando il delitto stesso fu commesso a causa di un’ingiustizia divina? Quasi che Dio, sentendosene responsabile, volesse rimediare all’ingiustizia verso Caino bloccandone almeno le ulteriori conseguenze?

Un’esitazione interiore che ha trovato conforto nelle riflessioni – che provo a tratteggiare, senza pretese ma per memoria – del filosofo Massimo Cacciari al festival filosofico gallaratese “Filosofarti 2015”, dedicato criticamente all’Expo per “nutrire la mente” ed appena concluso. Riflessioni riprese dal suo recente libretto “Doppio ritratto”, ove si discutono le due diverse letture dell’esperienza di Francesco d’Assisi, formulate da Giotto in modo edulcorato e ufficiale nel ciclo d’affreschi assisiate e da Dante, con la consueta aspra autenticità e ardua intensità, nella Divina Commedia. Francesco ha rivoluzionato la fede, la cultura e la società dell’occidente cristiano dell’epoca, recuperando il senso profondo dell’animo cattolico: libertà, povertà e amore, in perfetta letizia.

Nella spiritualità francescana, ha richiamato Cacciari, la libertà della persona presuppone l’esodo, il passaggio: nell’abitare il mondo, non si può restare prigionieri della casa che ci si costruisce intorno per proteggersi, ma bisogna farsi sempre viaggiatori in transito, scrollarsi di dosso i legacci, le catene e la polvere del luogo, e mettersi in cammino. La nostra destinazione è ulteriore, non è né la casa né la città, non possiamo inchiodarci alla condizione di cittadini: non dobbiamo “stare” ma “passare”, non curarci di possedere la terra su cui stiamo perché è solo il veicolo del nostro andare. Dante è un grande francescano, che recepisce in pieno il messaggio del santo di Assisi perché concepisce il destino della vita come “infuturarsi”, farsi nel futuro: sempre in cammino, mai fermi, mai stanziali, aperti a nuove esperienze, sempre in discussione.

Questo andare oltre se stessi e le proprie sicurezze del momento, aperti verso il futuro, è libertà che comporta povertà, povertà di mezzi in quanto povertà di spirito: essere liberi significa non essere occupati, liberarsi da ogni impedimento buttando via ogni zavorra, non abbarbicarsi alla propria terra e ai propri beni, rivivere la povertà di Dio che si è fatto povero in Cristo, assumendo la condizione umana. Così i nemici della povertà sono, in Dante seguace di Francesco, l’avarizia e la famelicità. L’avarizia come geloso possesso, come tenersi spasmodicamente attaccati a beni e benessere senza volerli condividere con alcuno, restandone totalmente prigionieri; la famelicità come volontà violenta di appropriarsi dei beni degli altri, senza mai esser sazi, senza mai avere pace. La povertà di spirito in Francesco declina il senso della kenosis paolina, dello svuotamento di sé ma per incarnarsi, non per annullarsi come in Jacopone o in Mastro Eckhart.

E incarnarsi nel mondo significa amare il mondo, le persone e la natura, le cose e i fatti. Francesco povero incontra per primo il lebbroso, lo abbraccia e lo cura, lo libera dal bisogno. Amare significa liberare gli altri dal bisogno, non può essere un fatto sentimentale, amare è una prassi d’amore, un fatto concreto di bene per gli altri. Perché tutto ciò che esiste è buono e può e deve essere amato senza condizioni, lodando il Signore che l’ha creato. Tranne l’uomo: Francesco non predica agli uccelli (e ai fiori) ma loda il Signore con loro, perché esistono e sono buoni; ma l’uomo no se non si converte, se non si libera dal peccato che lo incatena, se non si fa a sua volta povero liberandosi dalle proprie catene e facendo esodo da se stesso. Il realismo di Francesco non ne fa un’anima bella, un buonista ingenuo e incolore: ogni persona ha la responsabilità del male ed è chiamata a liberarsene, liberando sé e gli altri verso il bene.

Amore che loda è lieto, anche nelle afflizioni ed attraversandole: Francesco soffrì indicibilmente nel corpo martoriato e stigmatizzato, subì la dolorosa sconfitta del dialogo infruttuoso con il Saladino nella sua personale crociata della buona novella, soffrì nel rapporto con la Gerarchia – che volle sempre “accomodarlo” alle sue convenienze, come illustra Giotto – e con gli stessi confratelli che lo contestavano per meglio interpretarlo. E tutto in “perfetta letizia”, nel rapporto mistico con Dio, che loda avanti a Lui il creato. Nulla di cerebrale e nebuloso in Francesco, ma un attivismo della preghiera, della parola e dell’azione continua, gioioso e combattivo, perennemente in cammino.

Ecco, riflettevo a mia volta, il senso teologico della preferenza biblica per i pastori, al di là d’ogni lente deformante di tipo culturale: perché Dio chiama all’esodo perenne, al nomadismo dalla terra e dalla casa, alla libertà da ogni possesso. Dio ama il cammino, non la stanzialità, ed il cammino è intrinseco ai pastori, come Abele: sono questi i doni che Dio ama, la povertà di non aver casa ma tenda, la libertà di non inchiodarsi a terra ma librarsi verso il cielo, l’amore di muoversi verso gli altri liberandoli dal bisogno. Caino rappresenta radici che frenano e fermano, per liberarsi deve farsi nomade a sua volta, a sua volta in esodo, e per amore di Dio nessuno lo toccherà; sia la terra la nostra base di partenza, non il nostro recinto né la nostra prigione, àncora solo temporanea e poi trampolino di lancio verso il futuro. Altrimenti ci sarà sempre un cuore occupato, cui non basta mai ciò che possiede e che s’adira per ciò che manca, producendo violenza su di sé, sul mondo e sugli altri, senza alcuna letizia.

 

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