Non è stato certamente un atto di formale cortesia né tantomeno un gesto di galateo ecclesiale quello che ha condotto oltre ottantamila aderenti al movimento di Comunione e Liberazione ad incontrare Papa Francesco il 7 marzo in piazza San Pietro. L’udienza, preparata accuratamente ed attesa con trepidazione dai militanti di CL, nasce dal desiderio di incontrare il Papa a dieci anni dalla morte del fondatore Don Luigi Giussani, e costituisce la prima opportunità di verifica della sintonia tra Papa Bergoglio e questo movimento, spesso chiacchierato ed attaccato dai mezzi di comunicazione a motivo della sua esposizione in tutti gli ambienti e per le scelte politiche fatte da alcuni suoi membri. Alcuni temevano anche una possibile strigliata al movimento ed un ridimensionamento del peso ecclesiale che i precedenti pontefici gli avevano riconosciuto, mentre molti altri speravano di ritrovare una sintonia immediata e gioiosa tra la fecondità del carisma di CL presente ormai in molti Paesi del mondo (solo dal Papa erano rappresentate ben quarantasette nazionalità di tutti i continenti), ed il progetto missionario dell’attuale pontificato. Ma tra lo stile del rimprovero con la correzione di possibili errori ed una laudatio troppo a buon mercato, il Papa ha scelto la via di proporre un esame di coscienza in profondità per riscoprire come il carisma di CL possa rimanere fedele a sé stesso e fare molto bene alla Chiesa intera, evitando di dare pagelle di merito.
Per fare questo è ripartito dalla radice del Cristianesimo come incontro, ridicendo ad una folla composta e compunta nella preghiera, che tutto nella vita incomincia con un incontro, in cui Cristo ci precede sempre perché ci aspetta da sempre, essendo prima della stessa attesa dell’uomo (come “il fiore del mandorlo, che fiorisce per primo ed annuncia la primavera”). Così diceva e faceva anche don Giussani, che per tutta la vita si è rivolto alla libertà dell’io suscitando le principali domande dell’esistenza perché potesse scoprire Cristo come la risposta attesa. In quel “prima” della grazia si sperimenta che “il luogo privilegiato dell’incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo verso il mio peccato” – ha detto Papa Francesco – che rende anche la morale cristiana “risposta commossa di fronte ad una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura ingiusta secondo i criteri umani”. Così non c’è nessun merito personale da poter esibire, nessuna etichetta di perfezione da appiccicare farisaicamente come se qualcosa venisse dalla nostra bravura, perché tutto viene da questo prima della Grazia, che toglie legittimità ad ogni pretesa di poter essere autoreferenziali.
Perciò il cuore dell’ecclesiologia di Papa Francesco è quella di una Chiesa in uscita chiamata a comunicare la bellezza dell’incontro originario con il Salvatore, muovendo dalla certezza che “il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù”; perciò l’accento personale o la spiritualità specifica con cui ciascuno di noi è giunto alla fede, seguendo un carisma particolare, non deve far dimenticare che la Chiesa esiste solo come unità nella pluriformità (come dice sempre anche il cardinal Scola); e ciò chiede di sentirci sempre “decentrati”, cioè periferici rispetto al cuore stesso del Vangelo (che è solo Gesù nella totalità della sua persona), il che rende capaci di gratitudine e di umiltà nell’ascoltare tutti gli altri carismi, evitando la tentazione di sentirsi i più bravi. Nella Chiesa non si può essere settari in una autoreferenzialità che valorizza solo quello che si vive nel proprio ambito ristretto. Lo stesso don Giussani affascinava chi lo incontrava soprattutto per la sua indomabile capacità di ascolto e valorizzazione di ogni vibrazione dell’umano che gli impediva di “pietrificare” il dialogo in una fissità difensiva.
La fedeltà autentica alla propria storia e all’autenticità del carisma consiste invece nel “tener vivo il fuoco e non nell’adorare le ceneri”, ed oggi occorre tener desto il fuoco della memoria come il Papa ha invitato a fare al termine della sua riflessione citando due bellissimi testi di don Giussani: uno del 1967 che afferma il Cristianesimo come principio di redenzione che assume tutto il nuovo salvandolo ogni volta, l’altro del 2004 in cui afferma di non aver voluto “fondare” nulla di nuovo ma di aver solo voluto ritornare agli aspetti elementari del Cristianesimo.
In conclusione, chi si aspettava di vedere etichettata l’identità di CL in un’ipotetica classifica di preferenze del Papa (magari con qualche accento severo di correzione!) si è trovato di fronte in realtà al richiamo ad essere “braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa in uscita”, proprio per poter essere fedeli all’istanza missionaria che mosse Giussani sessant’anni fa. In questa prospettiva il Papa ha richiamato il carisma ciellino a non essere autoreferenziale perché il suo scopo è condurre al centro dell’esperienza cristiana, non di diventarne il centro esclusivo. E come i Santi invitano all’unica fedeltà al Signore, così vale per CL. È l’atteggiamento imparato da don Giussani di suscitare la libertà di tutti pur di “di guadagnare qualcuno a Cristo”, facendo sperimentare come la totalità della fede possa essere vissuta nel frammento di un’esperienza particolare. E proprio qui sta il nodo cruciale del richiamo di Papa Francesco: decentrare il cuore anche dal carisma cui magari dobbiamo la nostra conversione per abbracciare il Tutto della Verità di Cristo; perché se dobbiamo essere grati di aver incontrato la totalità della fede dentro un carisma particolarmente persuasivo per la vita, non dobbiamo ridurre ad esso l’intero contenuto della fede.
In sostanza in questo “tutto nel frammento”, che fa incontrare la totalità del Mistero nella singolare contingenza di un’esperienza specifica e particolare, sta l’intera Verità dell’Incarnazione, in cui si gioca la sfida della propria personale appartenenza alla Chiesa e la capacità di incontrare ogni uomo sino alle periferie dell’umano.
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