Il professor Silvano Colombo ha studiato la bellezza a Varese in ogni sua forma e si è battuto per salvaguardarla. Settantasette anni, varesino, è stato uno dei fondatori quarantacinque anni fa del liceo artistico Frattini dove ha insegnato a lungo e ha diretto la Biblioteca e i Musei Civici dal 1965 al 1989. Scrittore, storico e critico d’arte, è autore di decine di libri sul patrimonio artistico con particolare riferimento all’architettura religiosa del Seicento e alle sculture dei Sacri Monti. Ha spiegato i capolavori Liberty e i prediletti artisti Caravaggio, Bodini, Baj, Il Piccio, ha collaborato con Piero Chiara, Luigi Zanzi, Carlo Alberto Lotti, il fotografo Vivi Papi e con molti altri.
È la persona giusta, insomma, per spiegarci come apprezzare l’arte che abbiamo a portata d’occhi e che spesso non vediamo: “Dovessi indicare a un turista le tappe fondamentali di un viaggio nel Barocco varesino – dice – lo manderei alla chiesa di Sant’Antonio alla Motta e fuori città alla decima cappella del Sacro Monte. Sant’Antonio alla Motta è una manifestazione lampante, davanti agli occhi di tutti, della pittura illusionistica tipica del Barocco, una chiesa esternamente squadrata dove all’interno pensi di trovare le pareti nude e invece le pareti sono trasfigurate da una finta architettura e l’incrocio dei colonnati è uno spettacolo scenografico e teatrale”.
“È merito dei fratelli Baroffio, varesini del Settecento, avere dipinto questo scenario che sfonda la parete e fa entrare in gioco la luce dipinta che suggerisce, a chi osserva, l’esistenza di altri spazi illusori; infatti, se vai dietro l’altare e appoggi una mano, trovi il muro e non una colonna. Anche le volte della chiesa affrescate da Giambattista Ronchelli aprono la vista sul cielo e scorgi il santo che sale in gloria. È tutto tipicamente barocco, un genere nato a Roma nella chiesa del Gesù che andò avanti per tutto il Settecento. Ronchelli fu allievo del Magatti che era un pittore di figure e i Baroffio furono invece straordinari pittori di architetture. Collaboravano tra loro, chi dipingeva lo spazio, chi ci collocava i personaggi”.
Alla Decima Cappella Vivi Papi fotografò il crocifisso e Gesù colpito dalla luce: “Papi era un fotografo d’arte, realizzava immagini di incredibili bellezza e morbidità. Gli suggerii di andare alla decima cappella alle tre del pomeriggio del Venerdì Santo sapendo che in quella, come in altre cappelle, ci sono effetti di luce studiati da chi le ha costruite. Scattò una foto capolavoro”. Ma il Sacro Monte non è solo bellezza, ci sono anche le brutture: “Il Grand Hotel liberty abbandonato da decenni mi mette un’infinita tristezza. Passano le generazioni, le antenne tv restano lassù, nessuno ha idea di cosa farci, non esiste un progetto politico e culturale, del resto la politica snobba i voti della cultura perché servono a poco”.
E la funicolare che perde duecentomila euro l’anno e funziona con il contagocce? “A Brunate l’hanno oliata per bene e va avanti a lavorare. Purtroppo la nostra sale in un borgo senza attrattive e il parcheggio alla Prima Cappella, lì dove vogliono farlo, non serve a nessuno. È a mezza strada. Va ristudiato. Io spero che durante gli scavi trovino qualche testimonianza archeologica importante che li obblighi a fermare tutto”.
Ancora una domanda: Varese valorizza la ricchezza artistica di cui dispone, anche in vista dell’Expo? “Non vorrei che l’Expo diventasse lo specchietto per le allodole – risponde Colombo – Le opere si fanno perché camminino con le loro gambe anche dopo l’Expo”.
“Comunque no, non sempre Varese ha valorizzato ciò che possedeva. Commise l’imperdonabile errore di demolire il Teatro Sociale ma siccome era di proprietà privata, nessuno poté metterci il becco. I proprietari dei palchi pensarono che fosse più conveniente far costruire un condominio che gestire la cultura. Fu una scelta privatistica e la politica tacque, l’amministrazione cittadina non intervenne invitando a fermarsi, a rifletterci un attimo, eppure a Como avevano un teatro ottocentesco più giovane del nostro e lo tennero in piedi. Il nostro di fine Settecento fu abbattuto”.
Come rilanciare allora la cultura? “Nel 1988 quando dirigevo i musei civici, noi di Varese creammo un collegamento con l’unione degli artisti sovietici a Mosca. Era l’epoca di Gorbaciov e si aprivano rapporti possibili a livello culturale che si sarebbero dovuti ripetere anche con la Cina. Proposi di farlo e un importante istituto della città, di cui taccio il nome per carità di patria, mi rispose: “Ma che cosa andiamo a fare in Cina?”. Questo vuol dire stare attaccati alla propria scrivania e non capire che la cultura si promuove facendo conoscere il nome di Varese all’esterno. Che questo episodio serva di esempio”.
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