È di recente uscita l’opera di Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo all’Università di Torino, dal titolo “La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori” (edizioni Laterza).
Propenso a considerare autentica la conversione di Costantino e non strumentale, l’autore ne riferisce l’ispirazione più in relazione ai re d’Israele, che non al modello di Gesù. Chiaro è l’inquadramento della sua azione nell’ambito del cesaropapismo: perseguì l’unità religiosa a supporto del potere politico; nel contempo con Costantino la Chiesa diventa una realtà sociale di primo piano, ma perde il sale del Vangelo (e dalle catacombe e dal martirio giunge all’intolleranza religiosa). Fallito il tentativo di restaurazione pagana di Giuliano l’Apostata, volta a estirpare il cristianesimo dal corpo dell’Impero (tentativo non propriamente tipico della mentalità e tradizione pagana), ecco Teodosio fissare un credo per legge con proibizione perentoria di tutti gli altri culti, sviluppando una politica di persecuzione nel confronto di eretici e pagani, peraltro non sistematica e capillare, con una legislazione sempre più restrittiva verso gli ebrei. Si assiste a una vera e propria criminalizzazione delle tre componenti, con affidamento delle esecuzioni da parte della Chiesa al braccio secolare. Infine Ambrogio, nel caso di conflitto tra i due poteri, temporale spirituale, assegna invece al secondo, deprivato d’ogni sacralità, una funzione subordinata.
Costantino si considerava episcopos ton ektós e isapostolos (pari agli Apostoli) e tendeva a stabilire l’unità religiosa dell’Impero, minacciata dall’eresia ariana, per fini essenzialmente politici, seguito da Costantino II, che asseriva: “La mia volontà è un canone”. (Vedi poi il comportamento di Giustiniano nel Concilio di Costantinopoli del 536: “Al di fuori della sentenza e dell’ordine dell’Imperatore niente deve farsi nella Chiesa” e il comportamento tenuto dai basileis bizantini, che imponevano l’accettazione da parte di tutti i vescovi delle formule di fede ritenute ortodosse, salvo
poi restringere il proprio dominio alla disciplina e all’organizzazione ecclesiastica).
La tradizione si perpetua negli Czar; Pietro il Grande stabilisce nel 1721 il Regolamento ecclesiastico, mentre l’Occidente cattolico risulta pressoché immune da influenze cesaropapiste, a parte la dittatura imposta alla Chiesa da parte di Carlo Magno e i soprusi degli imperatori germanici durante la lotta delle investiture. Nonostante le teorie regaliste la riforma gregoriana risulta alla fine vittoriosa. Nell’epoca moderna ai tempi della Riforma il cesaropapismo è restaurato nella sua forma estrema (vedi per esempio Enrico VIII, la Regina Elisabetta, i principi luterani). Ingerenze dei re nella disciplina ecclesiastica si hanno ancora col gallicanismo e il giuseppinismo.
Sul fronte opposto clamorosi sono i pronunciamenti via via del Dictatus Papae (Gregorio VII, marzo 1075), la proposizione XII asserisce che è lecito al Papa deporre gli Imperatori; la XXVII ch’egli può sciogliere i sudditi dall’obbligo di fedeltà verso gli iniqui, mentre Bonifacio VIII con la Bolla Unam Sanctam (Concilio romano del 18 novembre del 1302) nella controversia con Filippo il Bello afferma che entrambe le spade, quella spirituale e quella temporale, sono nella potestà della Chiesa; la potestà spirituale è superiore a qualsiasi potestà terrena in dignità e nobiltà; ha il compito di istituire il potere terreno e, se non fosse buono, di giudicarlo; l’uomo spirituale esamina ogni cosa, ma da nessuno è esaminato.
Nei tempi a noi vicini lo Stato di diritto contempla le negazione precisa, estesa e sistematica di ogni significato metafisico e religioso della vita politica, mentre nel pensiero di Hegel il senso dello Stato sta nello Spirito del tutto, non della persona. Marx poi sostituisce allo spirito del mondo la dialettica della materia. Non va però trascurata la riscoperta delle verità naturali, razionali e perenni, che stanno a reggere le istituzioni in connessione colle dottrine classiche. La sovranità il popolo la riceve da Dio; il diritto naturale precede la volontà del popolo, mentre il giuspositivismo nega l’esistenza di un diritto naturale; massimo deve essere il rispetto delle persone: l’uomo ha dei diritti perché è un io.
Oggi generalmente e opportunamente ci si pronuncia per la distinzione e reciproca autonomia nei rapporti Stato-Chiesa, con esclusione di interferenze tra le due istituzioni, dato il diverso fine delle due società, l’una rivolta al bene comune temporale, l’altra alla santificazione e salvezza delle anime. Vanno evitati comunque il separatismo nelle sue forme estreme e il principio delle due parallele, che non si incontrano mai, privilegiando invece la collaborazione in tante materie e non confondendo laicità con laicismo.
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