Riparte il ciclismo con le grandi classiche di primavera e la leggendaria Milano – Sanremo. Riparte un po’ più povero di prima perché poco più di un mese fa si è congedato dalle strade un grande campione, Cadel Evans, trentotto anni suonati, australiano, domiciliato a Stabio, vincitore del mondiale “casalingo” di Mendrisio (2009), del Tour 2011 e di molte altre competizioni sia come biker nel cross country sia da stradista a partire dal 2001. Eppure non sono tanto i suoi successi a farlo rimpiangere quanto l’assoluta pulizia della sua carriera, mai un sospetto a suo carico, mai una chiacchiera negli ultimi tormentati quindici anni del ciclismo internazionale. “Onesto: l’unico corridore per il quale metterei la mano sul fuoco” ha detto Giorgio Squinzi, gran patron del gruppo Mapei e attuale presidente di Confindustria. Cadel, ciclista di altissimo livello, si è infatti costruito dalle nostre parti presso quella fucina di passione e tecnologia che è il Centro Mapei Sport di Olgiate Olona, alla corte di Aldo Sassi, “il professore” morto nel dicembre 2010, a soli cinquantuno anni, a Valmorea.
Di Cadel Evans, al di là delle indiscutibili doti atletiche, colpivano tre qualità: l’applicazione nella preparazione, la determinazione in corsa, la mitezza nella vita. La prima dote le suo ricco corredo è ben riassunta in una frase sua pronunciata alla fine della Cadel Evans Great Ocean road Race, la magnifica manifestazione australiana open che lo ha visto in sella per l’ultima volta: “ Ciò che più di tutto mi rende orgoglioso è la mia durata come atleta, la mia credibilità sportiva…combattere contro tutti gli aspetti negativi del nostro sport è qualcosa che va oltre. Altri sport dovrebbero vedere cosa abbiamo fatto noi del ciclismo e alzarsi al nostro stesso livello”.
Chi ha seguito la parabola ciclistica del canguro dolce, dalla voce vagamente lamentosa, dagli occhi azzurrissimi ma dalla tempra di acciaio, non può dimenticare le sue qualità di combattente; quante volte lo si è visto torcersi sulla bici, soffrire sulle lunghe salite dove talvolta gli capitava di pagare dazio agli scalatori, battersi come un leone nelle cronometro dove peraltro eccelleva. La resa non era contemplata nel suo corredo di campione. Infine la mitezza tratto distintivo assai raro nella società di oggi. Si sottoponeva al rito faticoso delle interviste del dopo corsa, alle esigenze del circo televisivo, con serenità e misura, cercando di dare sempre logica plausibilità alle sue prestazioni buone e meno buone, senza mai accampare scuse.
Con la lucidità che gli è propria, al termine del Giro d’Italia dello scorso anno ha cominciato seriamente a pensare di smettere. Nonostante una preparazione meticolosa e severissima i risultati non erano arrivati, qualcosa si era definitivamente inceppato nei delicati equilibri che governano il fisico e la mente di un grande ciclista. Ne ha preso realisticamente atto evitando di trascinare lungo le strade la lenta agonia del proprio declino. Nell’inverno 2013, in un freddo giorno di dicembre, mi è capitato di incrociarlo per caso in un bar di Porto Ceresio. Accostata la bici alla veranda è entrato, ha ordinato un panino al prosciutto crudo, ha chiesto se poteva avere la Gazzetta e un bicchiere d’acqua. Nessuno dei pochi avventori lo ha riconosciuto nonostante una sua foto campeggiasse sopra il bancone. Ha pagato il conto, ha salutato, è risalito in sella per sparire in un attimo dietro la curva, lanciato verso Brusino, Riva San Vitale, la bella casa di Stabio. Classe e sobrietà.
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