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Editoriale

VIETNAM

MANIGLIO BOTTI - 06/03/2015

vietnamIl primo carro nordvietnamita entrò a Saigon nella tarda mattinata del 30 aprile 1975, a protezione delle truppe che stavano inesorabilmente avanzando. L’ultimo elicottero americano aveva lasciato la città all’alba: uno sgombero dell’ambasciata febbrile, precipitoso, così come s’è visto ricordare anche in molti film. Ma era realtà, quella: una fuga ignominiosa dopo una guerra perduta. Il presidente Thieu, che si dimise, disse che gli USA avevano pagato la guerra con il denaro, mentre l’intero popolo vietnamita con un immane tributo di sangue. Eppure anche gli americani – a fronte di circa un milione e mezzo di caduti tra vietnamiti del Nord e del Sud – lasciavano sul campo sessantamila uomini, quasi il doppio dei soldati che più di vent’anni prima avevano perduto nella guerra di Corea. E soprattutto se ne andavano, oltreché dopo una guerra disastrosa sul piano del prestigio internazionale e della credibilità, con una situazione interna difficile e lacerata, che mai più, neanche dopo quel disordinato abbandono, sarebbero riusciti a mettersi alle spalle.

Ma se per la fine “ufficiale” della guerra del Vietnam abbiamo una data – il 30 aprile del 1975, appunto – è molto più difficile trovarne una per l’inizio. Alcuni, almeno per quanto riguarda il conflitto con gli USA, la fanno risalire al dicembre 1960, quando fu costituito il Fronte di Liberazione Nazionale, che raccoglieva attorno a sé le forze della resistenza comunista. Ma in realtà in Vietnam, o in Indocina, come si diceva fino a pochi anni prima, si combatteva da sempre, non si era mai smesso.

Per gli americani, d’altra parte, l’escalation della loro guerra in Vietnam era cominciata a manifestarsi con largo anticipo rispetto a quella terribile degli ultimi anni Sessanta. Nell’agosto del 1964 il presidente democratico Lyndon B. Johnson aveva ottenuto dal Congresso mani libere. E quando si decise l’intervento militare, i “consulenti” USA già presenti sul territorio erano quasi ventimila, via via inviati dal presidente Eisenhower prima, repubblicano, e notevolmente accresciuti dal presidente Kennedy poi, anch’egli democratico.

L’8 marzo del 1965 – domani, domenica, sono esattamente cinquant’anni – ebbe luogo il primo atto di guerra. Lo sbarco avvenne nella base USA di Da Nang, dinanzi al Mar Cinese Meridionale; e non con atterraggi e con un uso dell’aeroporto, come forse era stato in un primo tempo pensato, ma secondo i canoni della spedizione e dell’occupazione tradizionali. Com’era accaduto in Normandia.

In quella zona – si racconta – stava passando ancora la cosiddetta “coda del monsone” e il mare continuava a essere minaccioso. Lo sbarco avvenne in poco più di un’ora: alle 9.03 del mattino una forza d’assalto di millequattrocento marine fu “lanciata” sulla terraferma dai LCM – i famosi Landing Craft Mechanized –. Fu uno sbarco grottesco, si dice ancora, perché in quel momento Da Nang era un posto che più tranquillo non si poteva immaginare. Non ci furono reazioni, se non – in seguito – un colpo sparato da un cecchino che andò a colpire un Hercules C-130 in avvicinamento con a bordo altri marine proveniente da Okinawa. Ma non si registrarono gravi danni.

Fu uno sbarco grottesco, perché ad accogliere i soldati USA c’era il sindaco di Da Nang armato di una macchina fotografica Polaroid. Al collo dei militari furono messe corone di fiori.

È rimasta famosa la foto del generale comandante Frederick J. Karch – che aveva combattuto come colonnello a Saipan, Tinian e Iwo Jima – ritratto con uno sguardo serissimo, avvolto in una ghirlanda di fiori. “Mi è stato chiesto più volte – ha raccontato il generale – della ragione della mia serietà… Ma un soldato che aveva un figlio in Vietnam, e che sarebbe caduto, non poteva non essere preoccupato”. Perplessità e preoccupazione colpirono altri ufficiali e soldati Usa nel vedere gli “alleati” sudvietnamiti girare in perlustrazione con la sigaretta tra le labbra e le radioline che trasmettevano musica jazz all’orecchio.

Le ragioni di una guerra sanguinosa e terribile, di cui come detto non si può indicare una data di inizio precisa, risiedono – o risiederebbero – nel fatto che, a giudizio del presidente Eisenhower, gli USA dovevano muoversi per contrastare nel Sudest asiatico l’avanzata del comunismo. E se si fosse perso il Vietnam si sarebbe poi registrato un “effetto domino” in tutte le regioni circostanti.

Ma nemmeno quest’ipotesi rispose poi a verità: tre anni dopo la sconfitta americana e la fuga da Saigon, nel 1978, il Vietnam attaccò un altro paese comunista, la Cambogia, che allora si chiamava Kampuchea, governata da Pol Pot. Nel febbraio del ’79, a sua volta, la Cina comunista invadeva il Vietnam. Lo sviluppo – anche economico di quelle regioni – ha preso nel corso degli anni un andamento abbastanza lontano dalle dottrine comuniste. La Storia fa il suo corso a dispetto di quanto possano prevedere gli uomini. Di sicuro oggi si può solo dire che su quel suolo sono rimasti più di un milione e mezzo di morti.

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