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Società

LE PAROLE, IL SILENZIO

EDOARDO ZIN - 27/02/2015

L’eremo di de Foucauld nel deserto algerino

L’eremo di de Foucauld nel deserto algerino

Dopo giorni mutevoli e risentiti, il sole nitido scende sui colli piacentini dove mi trovo. Ai margini del viottolo che percorro è restato qualche rimasuglio di neve. Dopo la messa biascicata dal vecchio curato di queste terre, esco all’aperto e mi inoltro nella campagna che si snoda tra i colli tondi e morbidi disseminati di campi neri arati di fresco e di vigneti su cui i teneri viticci stanno per emettere le prime gemme.

C’è un silenzio profondo attorno a me: mi arriva solo l’eco lontano di una campana che chiama alla messa domenicale i pochi vecchi rimasti in queste contrade.

Il silenzio m’invita a raccogliere le briciole di Vangelo proclamato da don Fabrizio. Mi tornano in mente le sue parole pronunciate con fiacchezza, ma con l’espressione della viva fede di un ministro del Signore che ha speso una vita intera per consolare, pregare, amministrare battesimi e celebrare funerali…

“Gesù viene tentato nel deserto, dove non c’è anima viva. Anche lì arriva il maligno perché lui lo portiamo dentro di noi, nel nostro cuore… Non è chi ci vive accanto che ci tenta, è il nostro cuore, il male che ci portiamo addosso”.

Rimugino queste parole.

Anch’io sono in un deserto, non in quello grigio del medio-oriente, ma in queste colline abbandonate, refrattarie ai giovani d’oggi e ostili alla vita. Ma non c’è morte: gli insetti giocano a rimpiattino coi raggi del sole, i rami spogli si popolano di battiti d’ali e di gridi leggeri, la prima lucertola si crogiola su una grossa pietra.

Così è anche il deserto: non è il luogo della morte, come talvolta si crede, ma il frutto della natura, dell’opera del vento che trascina la sabbia, dell’acqua che è rara, ma violenta.

Nel deserto, proprio come Gesù, hanno trovato ospitalità Charles De Foucauld, Carlo Caretto, mito di noi giovani, perfino il vescovo Pasquale Macchi che, dopo la scomparsa del “suo” Paolo VI, lì si è ritirato per pregare, ma soprattutto per ascoltare. Non erano soli: il Signore era con loro che parlava in una relazione dialogica per suscitare e rinvigorire in loro la fede. Dio usciva dal suo nascondimento e loro celebravano una liturgia cosmica cui partecipavano cielo e terra.

Mi guardo attorno: un pettirosso cerca un seme sulla terra, poi frulla su un ramo rinsecchito per cibarsi di una bacca. In questo silenzio ricerco il senso della mia vita provata in questi giorni perché il Cielo mi ha rubato una persona cara, a cui confidavo i miei dubbi e le mie colpe.

Mi sovvengono le parole di Gesù raccolte nell’omelia del vecchio curato: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

Dio non parla a vanvera. Se leggo la sua parola e gli parlo nel silenzio, Lui mi risponde.

Penso al dibattito (o allo spettacolo?) televisivo di alcune sere fa. Un critico d’arte vanitoso e infantile, intrecciando le dita tra i capelli per rianimarne la chioma, volgarizzava e banalizzava le parole. Il politico di turno esprimeva bla-bla-bla incoerenti e incompleti. Il politologo ricorreva ad uno stile oscuro. Il conduttore si avventurava in gargarismi semantici. E su tutto regnavano le risate, le urla, le accuse, le offese mentre il pubblico applaudiva. Al normale fluire del discorso che dovrebbe far pensare, educare, convincere, insegnare, cercare di spiegare venivano sottratte le parole e si creavano fantasmi concettuali, fronzoli salottieri che appesantiscono le menti ed il cuore.

Noi uomini usiamo le parole per contraddirci, per schierare l’uomo contro l’uomo, per sfiorare appena argomenti imbarazzanti, rendendo le parole poche chiare che fraintendono, usiamo un linguaggio magniloquente, ma vuoto e le parole finiscono per essere incomprensibili.

“Gesù nel silenzio viene tentato” – mi ricordava il curato. Il cristiano è un uomo tentato. Solo nell’uomo la tentazione prende aspetti abissali. La tentazione di un credente – frugo nella mia testa – è forse meno tragica di quella di un non credente, ma non è meno patetica e lancinante. Chi ha la grazia di credere è travagliato, chi non ha la grazia di credere è tentato dal dubbio, dall’incertezza e perfino dalla disperazione.

Il vecchio prete raccontava che le tentazioni più grandi sono quelle di trattare come oggetto chi dovrebbe essere soggetto d’amore, di crederci dei “super-uomini”, capaci di sostituirci a Dio, di crearci i nostri idoli, i nostri feticci, così che una statua di Padre Pio può stare benissimo anche nella casa di un mafioso, ma in essa il peccatore non troverà il volto di Dio. Ci ha invitati, il curato, ad allontanare dai nostri desideri anche quello di accumulare danaro, case, vetture potenti, che tentano di appagare quelle preoccupazioni e quelle ansie a cui un tempo solo la Parola dava risposta. Ci ha spronati a perdonare anche i dominatori del potere perché anch’essi sono nostri fratelli. Vestite sotto le sembianze della buona politica, le loro parole diventano spesso strumento di potere. Ho pensato in quel momento al “grande navigatore”, all’“uomo della Provvidenza”, all’“unto del Signore” che hanno celebrato nella loro ebbrezza i riti dell’esaltazione del “tutto va bene” e così ipnoticamente, addormentavano tante coscienze. Sono uomini che volevano sfidare anche il tempo spacciandosi quasi immortali e il tempo li ha condannati soffocandoli nella loro maschera di pagliacci.

Così fantasticavo compiendo a ritroso il cammino per giungere alla casa di riposo che mi ospita in questi giorni di trepidazione. Sulla porta mi si fa avanti una vecchietta veneta novantacinquenne: “Lo spetemo. Dovemo ‘ndare a desinare. Incò che xe el risoto, ma mi me piase stare con lu perché così parlemo”. Aspettava qualcuno che fosse pronto ad ascoltare non nel silenzio del deserto, ma in una sala da pranzo intrisa dell’odore del minestrone dove anziani immusoniti e taciti attendono la parola di qualcuno.

Tra una cucchiaiata e l’altra di risotto, ci guardiamo, io parlo, loro mi offrono i segreti della loro vita. Lo scabroso parlare è per loro un atto di fiducia, per me un atto di amore.

La presenza di una persona toglie a loro le incomprensioni del cuore e ridona un po’ di serenità. Una sola presenza, come la Parola che esce dal cuore di Dio, è il pane che li aiuta a contare i giorni che rimangono.

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