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Stili di Vita

IL VIAGGIO DEL DESIDERIO

VALERIO CRUGNOLA - 19/02/2015

viaggioUn compiuto excursus storico sulla filosofia del desiderio sarebbe illeggibile e tedioso. Purtroppo non so comprimere tre millenni di pensiero in minor spazio…. A seguire, altri due articoli autonomi saranno dedicati al desiderio del Bene e di Dio, e alle valenze esistenziali delle teorie delle diverse scuole psicoanalitiche. Di qui l’omissione di riferimenti a pensatori del calibro di Agostino, Tommaso, Kierkegaard o di Freud, Jung, Lacan. In modo grossolano vi propongo qui quattro distinti accostamenti al tema del desiderio, accompagnati dai rimandi a pensatori esemplari e storicamente influenti.

Fin dalle origini, la cultura occidentale si è fondata sul contenimento del desiderio. Il mondo greco vi avvertiva un’area di rischio, una potenziale minaccia al raggiungimento di uno stabile equilibrio interiore. Nel mondo tardo antico, questa visione si è trasmessa al cristianesimo e alla gnosi. L’affermazione storica del cristianesimo si è mutata in una severa condanna del desiderio, eccetto il desiderio del Bene e di Dio. Ma, sempre fin dalle origini, questa strategia sapienziale si è prestata a critiche o linee di faglia, che hanno aperto altre prospettive, che nel tempo sono divenute dominanti.

Il primo filone da evidenziare si incentra su una critica aperta del desiderio, visto come causa di smarrimento della ragione, fonte di sudditanza o motivo di sofferenza per l’impossibilità di controllarne la soddisfazione. Eraclìto sottolinea l’ambivalenza, la contraddittorietà e la relatività del desiderio. Il desiderio è incompatibile con il logos che tutto governa. Il logos è fuoco purificatore e rigeneratore; il fuoco del desiderio è effimero e distruttore. Nel Gorgia, riferendo il mito delle Danaidi, Platone condanna i desideri del corpo perché inestinguibili; analoga condanna dei desideri fini a se stessi si trova nel Filebo. Zenone, il fondatore dello stoicismo, vede nelle passioni un movimento irrazionale e disordinato dell’anima, e ne distingue quattro «primarie»: desiderio, timore, dolore e piacere. Cicerone riprende questa partizione. Per entrambi si tratta di turbative che sottraggono la psiche all’equilibrio e alla pace interiore. Per Zenone c’è una sola via d’uscita: la lotta per sopprimere in sé ogni passione. In Lucrezio un’insoddisfazione perenne obbliga l’essere umano, dominato come ogni vivente dalla «libido» – che pure tutto genera –, a correre senza sosta di desiderio in desiderio, fino a venirne soggiogato: «Finché l’oggetto dei nostri desideri è lontano – scrive –, ci sembra superiore a tutto il resto; appena è nostro, desideriamo altro e la stessa sete di vita ci tiene sempre con il fiato sospeso».

Due sono i grandi prosecutori di questo filone nell’età moderna: Spinoza e Schopenhauer. Nel primo il desiderio si inquadra nella teoria del «conatus», lo sforzo di ogni singolo ente di perseverare nel proprio essere. Ne viene che «noi non ci sforziamo verso nessuna cosa, né la vogliamo o tendiamo ad essa per appetito o desiderio perché giudichiamo che essa è buona; è il contrario: giudichiamo che essa è buona perché ci sforziamo verso di essa per appetito o desiderio». Il solo criterio che guida il desiderio è cercare di incrementare o evitare di diminuire la nostra potenza; nel primo caso il desiderio si associa a uno stato di gioiosa esuberanza, nel secondo ad uno di «tristezza che riguarda la mancanza della cosa che amiamo». La scissione schizoide con cui separiamo la mente dal corpo ci impedisce di riconoscere l’origine del desiderio nell’unità interna del conatus, per attribuirlo invece a qualche oggetto o motivazione esterna a noi. In tal modo ci abbandoniamo alle passioni e al loro fluttuare, anziché cercare un bene stabile e razionale.

In Schopenhauer il desiderio è una forma di dominio che manifesta la sua universalità sotto le mentite spoglie del principio di individuazione. Ciò che ci appare come il movente più autenticamente nostro nasconde il vano affannarsi della vita attorno a se stessa, affermazione e negazione insieme. La volontà «manca interamente di un fine ultimo» e, «incapace di una soddisfazione definitiva, si slancia nell’infinito», naufragando nel nulla. La sola risposta possibile è un’ascesi privativa, che non cerca di conquistare alte vette spirituali, ma semplicemente di concedersi una tregua per sottrarsi temporaneamente alle catene del desiderio e della volontà. All’origine del desiderio vi è una mancanza, ossia una sofferenza. L’uomo è vittima del desiderio. Se lo soddisfa, gli subentra la noia, che genera nuove mancanze, altre sofferenze, in un labirinto senza uscita; gli individui si avviano verso la loro disfatta illudendosi che il desiderio costituisca il massimo dei loro beni. La cultura è un costrutto ingannevole: l’innamoramento, che decantiamo con le sublimi parole della poesia, altro non è che l’istinto sessuale mediante il quale l’individuo serve la specie credendo, attraverso il desiderio amoroso, di servire se stesso.

Il secondo filone rimarca l’ambivalenza, la bifrontalità del desiderio. Alle più remote origini troviamo la figura di Gilgamesh: il desiderio, incarnato da una prostituta, è sete di conoscenza, discernimento della vita e della morte, viaggio sul confine tra il divino e gli inferi, tra il bene e il male. Democrito connette il desiderio al bisogno: in sé, la sua matrice istintuale è sana ed innocua, poiché si accontenta della soddisfazione naturale; non così la mente, che rende l’uomo intemperante, insaziabile, incline all’eccesso e alla cupidigia.

La tripartizione dell’anima in vegetativa, sensitiva e razionale porta Aristotele a porre il desiderio all’incrocio tra appetito, impulso e volontà, e da lì a connetterlo alla facoltà immaginativa che si sviluppa autonomamente a partire dai cinque sensi, determinandosi come una percezione senza materia, e perciò potenzialmente tanto verace quanto ingannevole. Il desiderio è «appetizione di ciò che è piacevole», spesso supportata dal ricordo e dall’esperienza, che ci aiutano a discernere e comparare i benefici e i danni dei desideri. Ma non sempre l’anima intellettiva è in grado di dominare l’anima sensitiva, e la volizione (che viene dalla costante tensione dell’anima nella sua interezza a passare dalla potenza all’atto) può risultarne inquinata e deviata dal perseguimento di un retto piacere. Nell’Etica a Nicomaco Aristotele associa invece i desideri all’insopprimibile tensione dell’uomo alla felicità, che non può consistere nella sommatoria degli infiniti appagamenti di tutti i desideri legittimi e benefici. Ma non tutti i desideri – specie quelli corporei – conducono alla felicità. La più autentica felicità nasce dall’amicizia, il più elevato desiderio umano su cui si fonda ogni livello della convivenza sociale. «L’amicizia consiste nel desiderare e nel fare, per il proprio amico, il bene, o quantomeno ciò che sembra tale». Il tema si ritrova in Leibniz: l’amore di concupiscenza è «il desiderio o il sentimento che proviamo per colui che ci dà piacere, senza preoccuparci di restituirglielo», mentre quello di benevolenza è «il sentimento che proviamo per colui che ci fa dono del suo piacere e della sua felicità». Il primo nasce e muore con il desiderio, il secondo è disinteressato, altruistico e oblativo.

In Epicuro il desiderio è legittimo se il piacere non è cercato come fine a se stesso, se appaga bisogni semplici, non esponendoci alla mancanza e alla sofferenza che ne discende, fino a farci gustare «il nudo piacere di esistere», la tensione più pura che animi l’uomo. Al contrario, l’appagamento di desideri ricercati e moltiplicati a dismisura non ci rende più felici, anzi ci espone a dannose turbative.

Per Descartes il desiderio è «un’agitazione dell’anima causata dagli spiriti che la dispongono a volere per l’avvenire le cose che essa si rappresenta come conveniente». E così prosegue: «Non si desidera soltanto la presenza del bene assente, ma anche la conservazione del presente, e più ancora l’assenza del male, tanto di quello che abbiamo già, quanto di quello che crediamo di poter ricevere in futuro». In Locke «il disagio che un uomo riscontra in se stesso per l’assenza di qualcosa il cui godimento presente comporta l’idea del diletto, è ciò che chiamiamo desiderio; il quale è maggiore o minore, secondo la maggiore o minore veemenza di quel disagio». Secondo Maine de Biran «il volere dell’uomo si limita alle cose di cui dispone, cioè alle cose che sa o sente immediatamente essere in suo potere, e non va più oltre. Il desiderio si estende alle cose che sono fuori dell’io e indipendenti da lui, cioè dal volere e dallo sforzo che lo costituisce». «Il desiderio – ne conclude – è un modo misto o composto, in cui l’azione e la passione si combinano e si succedono l’una all’altra».

Con ineguagliabile sapienzialità, il poeta portoghese Fernando Pessoa si interroga sul nesso tra desiderio e disillusione: «Desiderio: valesti la pena?» (L’impalcatura, 1924). In cambio, elogia il desiderio di nulla: «Ma che piacere / non compiere un dovere, / avere un libro da studiare / e lasciarlo aspettare! / Che noiosa la lettura, /che pochezza la cultura! / Il sole splende / senza letteratura, / Il fiume scorre, bene o male, / senza edizione originale. / E la brezza passeggera, / naturale e mattiniera, / sa che ha tempo e non ha fretta» (Libertà 1935). Anche Heidegger sottolinea, per altra via, quanto sia sfuggente la possibilità implicata nel desiderio: «L’essere per la possibilità si manifesta per lo più come semplice desiderio. Nel desiderio l’Esserci progetta il suo essere in possibilità che, non solo non sono mai afferrate nel prendersi cura, ma la cui realizzazione non è mai né seriamente progettata né realmente attesa».

 Il terzo filone difende la liceità del desiderio. Empedocle è il primo a costruire una metafisica del desiderio, contrapposto dualisticamente alla discordia. Il desiderio è una tensione a un’unione panica, amorosa e armoniosa, tra i quattro elementi primari, mentre la discordia è la spinta disgregativa. La lotta tra le due tensioni è un ciclo perenne che alterna la vittoria di una tensione e la sconfitta dell’altra, passando per due momentanei momenti di equilibrio.

Rispetto ad Empedocle, Aristippo di Cirene riporta il desiderio a pura pulsione terrestre. Fonte di ogni desiderio è il corpo; il suo scopo è il piacere; il desiderio non è condannabile perché assolutamente naturale. Per Nietzsche il desiderio – che non va confuso con le «vogliuzze» davanti alle quali oggi ci poniamo in una sorta di schiavitù volontaria – non incontra mai il proprio appagamento, perché è un anelito che non dà tregua; non solo e non tanto sa di non poter raggiungere il proprio scopo, ma anche e soprattutto non sa quale scopo possa avere, se non se stesso come anelito. Nella «trasmutazione dei valori» dello Zarathustra, Il desiderio, se non nasconde una formazione reattiva mossa dal risentimento, si indirizza verso «una virtù che dona», ispirata a una sana voluttà, a un salutare egoismo e soprattutto a una potenza liberatrice che trabocca e vuole espandersi in continua, originale creazione, quasi «una zampillante fontana». Da quel dono nasce «il desiderio di desiderare», non a causa della mancanza ma per sovrabbondanza di ricchezza. Originale è la «rivalutazione» di Dewey, non lontana dalla potenza dilatatrice descritta da Nietzsche. Il desiderio è «l’attività che cerca di rompere la diga che la trattiene. L’oggetto che si presenta nel pensiero come la meta del desiderio è l’oggetto dell’ambiente che, se fosse presente, assicurerebbe una riunificazione dell’attività e la restaurazione della sua unità».

L’ultimo filone ci descrive la necessità extramorale del desiderio, quasi una sua neutralizzazione. Hobbes è il primo ad ancorare il desiderio ad un’esplicita matrice deterministica, che presiede il corpo umano e animale, non meno rigorosa di quella che presiede il mondo fisico. Come tale, il desiderio in se stesso si pone come extramorale, non può darsi come oggetto di valutazione che non sia quello della sua efficacia. Ogni desiderio risponde al desiderio primario dell’autoconservazione; tutto ciò che è in grado di incrementare positivamente e stabilmente la nostra autoconservazione è da considerarsi un bene, tutto ciò che la sminuisce o mette in pericolo è un male. L’istituzione delle norme che dall’alto dell’autorità dello stato regolano la convivenza costituisce il criterio fondativo della liceità o illiceità dei desideri. Sade, infine, muove come Hobbes dal carattere macchinale del desiderio. Il desiderio ignora positivo e negativo, bene e male: è semplicemente affermativo. Diversamente da Hobbes, questa potenza affermativa non va contenuta, ed anzi è capace, se riconosciuta, di travolgere istituzioni e morali convenzionali che opprimono la natura umana.

(2 – continua)

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