Essendo l’unico fra i Paesi membri del G8 a venire bagnato soltanto dal Mediterraneo, essendo uno dei maggiori Paesi membri dell’Unione Europea ed avendo sulla Libia un’influenza culturale e una presenza economica consolidate e ben accolte dai libici, l’Italia avrebbe il dovere di assumersi verso la Libia tutte le responsabilità che ne derivano. Siccome invece da anni non se le assume, se non in modo discontinuo, sta cominciando a pagarne le spese. Auguriamoci che faccia in tempo a cambiare strada; e non solo nel suo interesse ma anche in quello dei suoi vicini.
Dettati dalla storia e dalla geografia, i legami tra Italia e Libia precedono non solo l’età coloniale (la Libia fu colonia italiana tra il 1911 e il 1943) ma anche la stessa nascita dello Stato italiano che risale al 1860-61. Ne fa ad esempio memoria a Tripoli l’antica sede della Legazione del Granducato di Toscana, uno degli edifici più interessanti del suo centro storico. L’importanza di tali rapporti è ad ogni modo un fatto non solo del passato ma anche del presente. Dalla Libia proviene il 15 per cento del gas naturale e il 25 per cento del petrolio che si consuma in Italia. Il gas ci arriva direttamente tramite il gasdotto sottomarino Greenstream, lungo 520 chilometri, che collega la stazione di pompaggio libica di Mellitah al porto di Gela. Costruito in pochi mesi, tra l’agosto 2003 e il settembre 2004, il gasdotto è di proprietà dell’Ente Nazionale Idrocarburi, Eni.
L’ambasciata d’Italia a Tripoli è stata chiusa ma in Cirenaica, dove sono concentrati i campi petroliferi, l’Eni resta in attività per lo più grazie al suo personale libico, e conferma che per il momento continua a produrre e a esportare dalla Libia, come è nei suoi programmi, 250 mila barili di gas e di greggio al giorno. E grazie al suo radicamento e a tutte le relazioni che ha sviluppato in loco agli effetti degli interessi italiani l’Eni, che di fatto dispone di un proprio servizio diplomatico e di proprie forze di sicurezza, conta più dell’ambasciata.
Questo non toglie che alla lunga la situazione finirà per deteriorarsi se il governo italiano non fa la parte che è soltanto sua. D’altro canto è pur vero che l’attuale governo si trova alle prese con uno stato di cose che è frutto di errori e di inerzie di governi precedenti. I guai cominciarono nel 2011 quando, scoppiata in Libia una rivolta contro il regime dittatoriale del colonnello Gheddafi, il governo di Berlusconi non seppe operare a favore di una soluzione di compromesso ma si lasciò scavalcare dalla Francia e dalla Gran Bretagna interessate a far precipitare la situazione nella speranza che i successori del colonnello, grati per il sostegno ricevuto, avrebbero poi dato spazio a società petrolifere francesi e britanniche a danno dell’Eni. Credendo di salvare il salvabile, e anche cedendo alle pressioni del presidente Giorgio Napolitano, Berlusconi si accodò allora alla Francia di Sarkozy e ai suoi alleati anglo-americani. Il dittatore venne fatto cadere immaginandosi, non si capisce come mai, che dopo di lui qualcuno sarebbe stato in grado di guidare la Libia verso la democrazia. Con i risultati che adesso si vedono.
La Libia era stata costruita artificialmente dall’Italia in età coloniale unendo insieme due terre, la Tripolitania e la Cirenaica, che si volgevano le spalle sin dai tempi dell’Impero Romano, quando la Tripolitania era all’estremo della parte di lingua latina dell’Impero e la Cirenaica invece all’estremo di quella di lingua greca. La tensione tra l’una e l’altra, sempre pronta a riemergere, venne riaggravata quando, nella Libia ormai indipendente e in cui la Tripolitania aveva il primato politico, si scoprì che in Cirenaica c’erano ingenti riserve di petrolio e di gas naturale. Caduto Gheddafi, che riusciva a tenere in pugno a modo suo il Paese, tale tensione è riemersa fino a sfociare non proprio in un’anarchia, come sbrigativamente si sta dicendo, ma piuttosto nella guerra civile fra due governi, l’uno con sede a Tripoli e l’altro con sede in Cirenaica a Tobruk al confine con l’Egitto. Del conflitto hanno approfittato delle milizie non lontane dal puro e semplice banditismo che per nobilitarsi (si fa per dire…) hanno innalzato le bandiere nere dell’ISIS o IS e si dicono alleate dello pseudo-califfo di Mosul. Per liberarsene i due governi rivali di Tripoli e di Tobruk sembra siano oggi disponibili a venire a patti tra loro. A questo punto l’Italia potrebbe rientrare in gioco offrendo d’intesa con l’Onu la propria mediazione, magari anche in nome e per conto dell’Unione Europea. Per Renzi potrebbe essere una buona occasione per far seguire i fatti alle parole che più volte ha speso a proposito del Mediterraneo e della sua importanza per l’Italia e per l’Europa tutta. Non resta che sperarlo.
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