Le cronache di questi ultimi tempi ci hanno messo davanti agli occhi un tragico fenomeno, che pensavamo appartenesse ormai solo al passato: la schiavitù. Donne e bambini venduti come schiavi sui mercati del califfato, ragazze dell’Est avviate con la forza alla prostituzione sulle strade delle nostre città.
Ne ha parlato più volte anche Papa Francesco, denunciando la violenza alla quale sono sottoposte in tante parti del mondo le persone più deboli, in particolare i bambini.
Sorge dal cuore una domanda quasi disperata: ma come è possibile?
Qualche giorno fa la liturgia della Chiesa Cattolica ha celebrato la memoria di Giuseppina Bakhita, la santa sudanese, passata attraverso la triste esperienza della schiavitù, la cui vicenda rappresenta la singolare risposta della misericordia di Dio a questa tragica possibilità della storia.
È impressionante leggera l’autobiografia di questa donna, sottratta alla sua famiglia da mercanti di schiavi all’età di sette anni, venduta e comprata come schiava per ben cinque volte, sottoposta ad indicibili sofferenze e privazioni, fino a quando giunse in Italia, al seguito di una famiglia italiana che l’aveva riscattata, alla fine dell’Ottocento. In Italia Bakhita ricevette il Battesimo ed in seguito entrò a far parte della Congregazione delle Suore Canossiane a Schio, in provincia di Vicenza, dove morì l’8 febbraio del 1947.
Quando a Santa Giuseppina qualcuno ricordava le sofferenze che aveva dovuto subire, lei che parlava veneto, rispondeva: “Poareta mi? Mi no son poareta perché son del Parón e neła so casa: quei che non xé del Parón i xé poareti”.
La santità è la realizzazione piena dell’umano, alla quale Bakhita è giunta attraversando una condizione così radicalmente contraddittoria rispetto al desiderio del cuore dell’uomo, come la schiavitù. Si tratta di una vicenda che ci indica che la violenza e il peccato, che rappresentano fenomeni pur così imponenti nel mondo in cui viviamo, non hanno l’ultima parola.
You must be logged in to post a comment Login