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Politica

VINCERE E PARTECIPARE

FRANCESCO SPATOLA - 13/02/2015

bindiIl commento più sorprendente all’esito delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica è venuto da Rosy Bindi, che lodando il “metodo Mattarella” – privilegiare il consenso nel partito di maggioranza per formulare le proposte politiche, e solo dopo verificare l’eventuale assenso dei partiti di opposizione – ha riavanzato l’ipotesi di modificare la nuova legge elettorale, ora al passaggio finale alla Camera dei deputati, non soltanto per togliere la nomina dei capilista dal potere delle segreterie di partito generalizzando le preferenze, ma anche per assegnare il premio di maggioranza alla coalizione e non alla lista (vedi in tv su La7: “Otto e mezzo” del 5 febbraio). Ossia, esattamente, quello che dentro l’opposizione di Forza Italia vogliono Fitto e tutti i critici del “patto del Nazareno” per evitare sconfitte certe della Destra, al momento incapace di unificare i suoi vari filoni in un partito unico che possa competere con l’attuale PD. Quello che in Forza Italia è stata considerata la trappola di Renzi, l’imbroglio seguito dal tradimento di non nominare al Quirinale un Giuliano Amato, così garantista e dottor sottile da consentire a Berlusconi qualunque manovra affaristica e di potere.

Intelligenza col nemico? Impossibile crederlo per una esponente intransigente della minoranza di sinistra del PD come la Bindi. Piuttosto, manifestazione clamorosa dell’innamoramento suicida della sinistra italiana per il motto olimpico del barone De Coubertin: “L’importante non è vincere, è partecipare”. Un innamoramento condiviso con la tradizione politica dei cattolici democratici della Prima Repubblica, di cui la Bindi è nobilissima espressione, e che ha sempre visto con sospetto ogni concentrazione di potere in un governo forte, capace di decisioni di cui assumersi solitaria responsabilità. Una tradizione che, in nome della democrazia e con l’alibi del rischio di tirannide stanti i precedenti del Ventennio fascista, ha sempre preferito suddividere potere e responsabilità tra più centri – i partiti in coalizione, le correnti organizzate dentro il partito maggiore – che si controllino a vicenda e si spartiscano in ogni caso colpe e meriti, senza che si riesca mai a capire chi ha ragione e chi ha torto. Una tradizione che, ben prima della teorizzazione del Compromesso storico nella seconda metà degli anni ’70, ha favorito confusioni tra maggioranza e opposizione, accomodamenti al ribasso, inciuci vari a favore di corporazioni e lobby di riferimento di ciascuna parte. Compromettendo così un autentico controllo reciproco e lasciando spazio per i profittatori, sino a consentire su larga scala opportunismi, ruberie e corruzione.

Sino al grande subbuglio di Mani Pulite, da cui è malamente nata la Seconda Repubblica e l’idea – solo l’idea, in verità – di un vero bipolarismo dell’alternanza, che rimettesse ai cittadini elettori il giudizio sui risultati di governo del polo di centrodestra o di centrosinistra al momento in auge, promuovendo responsabilità ed efficienza del governare. Ma per governare davvero occorre unitarietà dell’azione di governo, mentre negli ultimi vent’anni si sono avvicendate coalizioni frammentarie, esposte al ricatto di ogni minima frazione componente – il massimo con i governi dell’Unione del povero Romano Prodi, sconfitto per due volte dal “fuoco amico” – e sempre giustificabili nell’attribuire alle altre componenti i fallimenti riscontrati.

Di qui nel 2008 l’intuizione di Walter Veltroni del PD come partito nuovo “a vocazione maggioritaria”, in un sistema politico esente dal ricatto dei partitini e dove un bipartitismo tendenziale promuovesse governi trasparenti e indiscutibilmente responsabili verso i cittadini elettori, rinunciando alle mille e infinite scuse dei governi di coalizione. Intuizione subito pagata cara: costretto alle dimissioni dalla segreteria per la sconfitta del centro sinistra alle Politiche 2008 nonostante dodici milioni di voti – risultato numericamente mai più raggiunto dal PD in valore assoluto – Veltroni è man mano uscito di scena e con lui l’idea del bipartitismo trasparente.

Poi l’azzardo di Renzi ha riportato l’idea in primo piano, e la legge elettorale approvata dal Senato e in seconda lettura in discussione alla Camera si impernia su di essa, con il premio di lista anziché di coalizione. La sinistra del PD è troppo navigata per non capire che modificare ancora alla Camera la legge elettorale, anche solo per togliere i capilista bloccati, vorrebbe dire tornare al Senato senza maggioranza – dopo che hanno esultato per la fine del “patto del Nazareno” conseguente all’elezione di Mattarella – e significherebbe impantanare definitivamente il premio di lista. Ma sembra che la difesa del “non comandare nessuno per comandare tutti”, che dà spazio sia ai partitini di coalizione sia alle correnti organizzate dentro i partiti maggiori, sia più importante del bene del paese. Per ragioni nobili di fraintesa maggior democrazia nel caso di Rosy Bindi e altri come lei, per più terrestri rivendicazioni di libertà di lobby, potere d’interdizione e di veto e vendita al miglior offerente in molti altri casi. Con la scusa che, tanto, l’importante è partecipare.

E se Renzi, come ha promesso, tirerà diritto concludendo alla Camera l’approvazione definitiva della legge elettorale col premio di lista, anche se lasciando i capilista bloccati, solo allora la partecipazione sarà quel che deve essere: dare un contributo significativo ricercando il massimo consenso – “diritto di tribuna”, garantito dall’irrisoria soglia minima del 3% dei voti per entrare in Parlamento – ma riconoscendo nel contempo il “diritto di governo” a chi raggiunge la maggioranza, o direttamente se supera il 40% dei voti o in seconda battuta se vince il ballottaggio.

Del resto alle Olimpiadi è importante partecipare perché, prima o poi, si può anche vincere.

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