Gli Atti degli Apostoli ci presentano in vari stadi lo sviluppo della prima comunità cristiana, sia nei rapporti interni che esterni, secondo un quadro ideale e un modello cui informare le istituzioni e in comportamenti da adottare nell’edificare le singole Chiese. È posta in prima luce la profonda comunione di spiriti dettata dalla fede nel Risorto. Atti 4, 32: la moltitudine di coloro che avevano abbracciato la fede aveva un cuore ed un’anima sola. Non v’era nessuno che ritenesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra loro comune. 4, 34-35: Non c’era infatti tra loro alcun bisognoso: poiché quanto possedevano, campi o case, li vendevano e portavano il ricavato delle vendite mettendolo ai piedi degli Apostoli. Veniva poi distribuito a ciascuno secondo che ne aveva bisogno.
Già Mosé nel Deuteronomio (15, 7-8) aveva invitato a condividere col fratello bisognoso i beni, non indurendo il cuore, ma aprendogli la mano e “prestandogli quanto occorre nella necessità in cui si trova”. Solo che Luca non adotta più il termine fratello, bensì ricorre a credente. È questi che porta a compimento e sublimazione la legge dell’amore, realizzando a modo di testimonianza l’avvento del Regno. Non si tratta soltanto di prestare o donare qualcosa al fratello indigente, tanto che si è poi parlato di superamento del concetto di proprietà privata. Tanto più è superato il concetto di comunanza e solidarietà riferibile all’amicizia presso il mondo greco e romano pagano, perché legato a un rapporto di tipo clientelare. Né vale il riferimento alla setta degli Esseni, per i quali la comunione dei beni era mezzo di ascesi, purificazione dalla mondanità (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica II,8, 3s.). Né entra in causa il passaggio immediato dei beni dal benefattore al beneficiario, quanto la mediazione del passaggio attraverso gli Apostoli.
Mentre per alcuni interpreti si tratterebbe di una vera e propria comunità di possesso, con negazione del principio della proprietà privata (introdotto più tardi in contrasto) (si vedano i giudizi di Renan, Nitti ecc.), per i commentatori e studiosi cattolici non vi si individua un principio giuridico, ma piuttosto una disposizione spirituale, che s’apre comunque alla visione della destinazione universale dei beni (la proprietà privata non è un diritto assoluto). “Il n’est pas question ici de transfert juridique de propriété; chacun reste propriétaire de ce qu’il a, mais l’affection qu’il porte à ses frères, le lui fait mettre à leur disposition “ (J. Dupont, Etudes sur les Actes des Apôtres, Paris 1967, p. 508). Humbert (L’attitude des premiers chrétiens devant les biens temporels, Studia Moralia 4,1966, 202) parla di una tardiva idealizzazione dell’aiuto, che I cristiani si prestavano vicendevolmente. Non si imporrebbe come misura necessaria alla salvezza. Pietro: questi i requisiti: Fate penitenza e ricevete il Battesimo (Atti, 2,29). La spogliazione dei beni non sarebbe obbligatoria, ma libera.
Comunanza dei beni non era che una delle espressioni della comunanza d’amore. E non può farsi riferimento a sistemi economici, in cui, tolta la proprietà privata e costituita la proprietà comune, con una produzione comune e comune consumo, si definiranno soluzioni più tarde.
Anche l’episodio di generosità riferito a Giuseppe, chiamato dagli Apostoli Barnaba, che vuol dire “figlio di consolazione”, levita nativo di Cipro, di cui ad Atti 4, 36-37, col rilievo dato starebbe ad indicare un gesto insolito. E non è da trascurare l’atmosfera d’eccezionale fervore, in cui viveva una comunità cui la parusia del Signore pareva del tutto imminente.
Segue l’episodio concernente l’avarizia di Anania e Saffira, cui si fa colpa essenzialmente di avere mentito allo Spirito Santo, più che di avere trattenuto ad arte parte del ricavato della vendita di un campo (Atti 5, 1 ss.). “Non era forse tuo prima di venderlo – gli obietta Pietro – e il ricavato della vendita non era forse a tua disposizione?”.
Siccome poi la comunità di Gerusalemme era composta tanto di convertiti di origine ebraica, tanto palestinesi, quanto ellenisti, oltre quelli di origine pagana “sorse un malcontento tra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana” (Atti 6, 1-6). Non ritenendo i Dodici di dover trascurare la parola di Dio – compito fondamentale – per il servizio delle mense, convocarono i discepoli, al fine che trovassero “sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza”, cui delegare l’incarico, eliminando favoritismi e restituendo il principio dell’uguaglianza e della giustizia nelle relazioni fra i membri della comunità.
Di qui la scelta di Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola, un proselito di Antiochia. Con l’imposizione delle mani gli Apostoli istituiscono il Diaconato, rinunciando saggiamente ad essere al contempo collettori e gestori delle risorse. Solo successivo sarà il conferimento del servizio liturgico. Tutti i nomi dei sette richiamano a una matrice greca. Il numero è da riferire a quello degli amministratori e dei giudici della città, a quanto attesta lo storico Giuseppe Flavio. Quello della prima comunità cristiana rispetto ad altri contemporanei è un modello alternativo di trasformazione dall’interno secondo una visione radicale della vita.
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