In un breve volgere di anni, l’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione e con esse dei social networks ha brutalmente ridotto la nostra socialità nel mondo reale a favore dell’espansione quasi illimitata della socialità virtuale. Il nostro tessuto di relazioni è cresciuto a dismisura. Tutti ci sentiamo personaggi in certo modo «pubblici» proprio perché le relazioni virtuali ci forniscono un «pubblico». Ma, nel mentre siamo sempre più visibili nell’arena del mondo digitale, di fatto diveniamo sempre più invisibili nella cerchia delle nostre relazioni reali. Più ci sentiamo protagonisti – anziché, al massimo, semplici ospiti – di una realtà lontana ma apparentemente non frantumata e anzi poliedrica, più ciascuno di noi si percepisce come visibile a tutti gli altri in un numero di relazioni potenzialmente illimitate, più i segnali che lanciamo sono intercettabili ipoteticamente da chiunque, e più cessiamo di fatto, in tutti questi casi, di essere i protagonisti della vita di prossimità, la sola che conti, la sola entro la quale possiamo interagire con gli altri mediante un’esposizione in carne ed ossa.
In tal modo, anziché disporci a vivere nella misura, i social network ci consegnano ad un mondo della dismisura dove l’esposizione, apparentemente totale e massima, è quasi nulla, perché ci consente sempre di sottrarci, di rifugiarci in rapporti dei quali non paghiamo pegno e nei quali non corriamo rischi reali, al massimo il fastidio di incappare in qualcuno che ci irrita con i suoi modi di fare, con i suoi approcci alle cose o con idee che non sentiamo nostre. Li «banniamo», e tutto finisce lì; una bacchetta magica ha tolto di torno ogni disturbo, ogni problematicità di una relazione impersonali tra nomi. Perso un «amico» ce ne facciamo un altro; nessuno ci è indispensabile. Così, la bulimia del nostro volerci specchiare in noi stessi corrisponde ad un’anoressia del nostro specchiarci negli altri. Peccato che il primo eccesso, da sé solo, non ci nutra.
La condivisione è possibile solo nelle relazioni faccia a faccia, nell’incontro tra i volti di due individui in una dimensione spaziale e temporale data. Sottratti come siamo allo spazio e al tempo reali, nessuna condivisione ci è più possibile. Facebook, il network che ci promette il massimo di condivisione (pensieri, emozioni, informazioni, immagini e suoni), in verità – colonizzando il nostro tempo, riempiendo il vuoto o la povertà del nostro esporci a relazioni reali – ci disimpegna quasi totalmente dallo sforzo di condivisione del tempo e dello spazio effettivi del confronto, delle parole dialogiche che rivolgiamo agli altri nella scambievole, mutua sfera della prossimità. Talvolta il bisogno di renderci visibili ci trasforma – ad esempio mediante il quotidiano abuso di «tags» – in veri e propri esibizionisti; altri, al contrario, si trasformano in voyeuristi, in ispettori che scrutano nelle esternazioni degli altri.
Ciò che massimizziamo nel virtuale si minimizza nel reale. Più siamo recettori o mittenti di parole, di immagini e di suoni nella prima sfera e più siamo muti, ciechi e sordi nella seconda. Vogliamo vivere con leggerezza, «taking it easy», e questo è il prezzo. La vita familiare, affettiva e amicale si depriva (e talvolta deprava) sino ad insterilirsi e a prosciugarsi in un’essenzialità vuota e abitudinaria, in comunicazioni che non comunicano nulla, in una presenzialità fisica che è assenza psichica. Più crescono la noia, l’uggia, la fatica, il prezzo e il peso che le relazioni reali inesorabilmente ci arrecano, e più ci lasciamo andare sconsideratamente a cercare emozioni, incontri, scambi e appagamenti nelle relazioni virtuali, dove nulla costa e tutto è etereo, impalpabile, inafferrabile.
Il nucleo narcisistico della personalità ne viene esaltato all’eccesso sino a sfuggire alle nostre capacità di controllo. Ma del nostro Io, che è costituito di limiti e di punti di forza, di tessuti relazionali che si consolidano e di altri che si sfilacciano in un continuo andirivieni nella dura concretezza del vivere insieme, non si ha quasi più traccia. Quando ci ritraiamo dai social networks, la nostra mente e la nostra emotività sono molto affollate rispetto alle prossimità quotidiane. Ben 132 «amici», poffarbacco, hanno messo un «Mi piace» alla foto del mio gattino, mentre mia moglie da anni non dà più alcun segno di affetto, ed anzi da giorni mette un «Mi piace» alle foto dell’iguana di un misterioso signore di Canicattì; per fortuna oggi, finalmente, la bella signora che corteggio con un profluvio di «Mi piace» e di emotikon sorridenti, mi ha risposto con ben tre cuoricini, la sospirata «conferma»! Ma alla fin fine, in verità, a furia di semplificarci la vita, ci ritroviamo più soli. Soli sotto vuoto spinto. Non abbiamo più una dimensione privata entro la quale abitare non in solitudine, entro la quale scambiare parole e gesti ricchi di senso affermativo e problematico.
Ecco il punto: abbiamo sospeso ogni problematicità, ogni criticità, ogni ostacolo all’affermazione di noi stessi. Ci illudiamo di brillare di luce nostra come le stelle brillano di luce propria. Ma la vita reale è un’altra: è fatta della luce degli altri che si compone con la nostra, e l’una e l’altra possono, insieme o a turno, sfavillare o tremolare, cancellare o accrescere le ombre, le opacità, i chiaroscuri.
Detto questo, i social networks non sono la negazione assoluta della socialità reale. Possono esserne la prosecuzione, oppure il preludio. Non ogni interlocuzione è a priori negata. Tutto dipende dalla nostra capacità di farne buon uso: anzitutto un uso dimensionato e circoscritto nel tempo e indirizzato a fini utili, costruttivi e creativi rispetto a nuove relazioni o a vecchie relazioni rinnovate. Devono servire non solo e non tanto a promuoverci presso gli altri, a fare di noi stessi l’oggetto di un’anomala operazione di marketing, ma a fornirci di una duplice porta d’accesso, di una porta a due entrate: a noi stessi da parte degli altri e agli altri da parte nostra. Devono collegarci di più alla vita reale, non sconnetterci. Devono potenziarci, arricchire le nostre risorse nella parola e nell’ascolto. Devono poterci insegnare il mondo reale: le sue densità, i lati e i frammenti che non conosciamo, o di cui addirittura ignoriamo l’esistenza. Servono reti di protezione, cautele e misura, ossia capacità di autocontrollo e di attenzione nel perseguire nel modo migliore i fini dialogici che ci proponiamo. Non è tanto grave se il nostro fine è far sì che gli altri a tal punto dialoghino con noi, con i nostri pensieri e con i nostri sentimenti, da spingerci a rinunciare di dialogare con gli altri. È grave, semmai, se il risultato effettivo è soltanto la nostra ostensione, un’ostensione così invadente e pervasiva da sconfinare con l’ostentazione e con l’imposizione di noi stessi in una scena immaginaria dove contano soltanto le reazioni o gli effetti che riusciamo, mediante quella nostra presenza come attori, a generare negli altri, in altri indistinti ridotti a semplici spettatori della nostra «recita». Come in ogni cosa, ci è chiesta una capacità di autocontenimento. Poiché tutto ci invita a non contenerci, a dilatare ovunque il nostro Ego, questo apprendimento ci risulta particolarmente difficoltoso soprattutto nella vita virtuale. Non è facile mantenere un ponte con la vita reale, costruendone l’estensione in un mondo extraterritoriale: è più facile, invece, perdere di vista il nostro territorio e smarrirci in una terra inabitabile dove persino i vincoli del rispetto, dell’eleganza e della buona educazione sono sospesi.
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