“Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere … Diciamo spesso questo Salmo, facciamone spesso la nostra preghiera! Esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione – amore – offerta – ringraziamento – pentimento – domanda. Esso parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini”.
Queste parole del mistico francese Charles de Foucauld esprimono l’adesione appassionata che la comunità cristiana ha riservato a questa supplica, certamente una delle più celebri di tutto il Salterio.
Un’adesione che è già implicita in alcune pagine del terzo Vangelo sulla misericordia di Dio. Pensiamo, ad esempio, alla “confessione” del figlio ‘prodigo nel peccato’, davanti al padre ‘prodigo d’amore’ nella parabola di Luca. O alla supplica del pubblicano ‘giustificato': “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Un salmo che è stato presente in filigrana nella grande riflessione di san Paolo sul peccato. Infatti nella sua lettera ai Romani l’Apostolo ne cita esplicitamente il versetto 6.
Il Miserere, divenuto sinonimo di peccato-pentimento-perdono, penetra poi nella tradizione dei Padri della Chiesa: riceve un appassionato commento omiletico da parte di Sant’Anselmo, diventa l’ossatura ideale delle Confessioni di Sant’Agostino, viene amato e meditato da san Gregorio Magno.
Il salmo 51 (50 nella numerazione dell’antica versione greca e latina), che certamente ha plasmato la cultura occidentale, è stato il silenzioso compagno di lacrime di tanti peccatori pentiti, è stata la segreta biografia di tante anime sensibili, è stato lo specchio della coscienza vivissima e lacerata di uomini almeno onesti con se stessi, è stato l’atto di accusa contro ogni forma di fariseismo ipocrita…
Ha osservato lucidamente il filosofo M. Scheler in “Pentimento e rinascita”: “più la colpa s’aggrava, più essa si cela agli occhi del peccatore; ma più cresce l’umiltà, più si diventa sensibili alla minima mancanza”.
Questo salmo è divenuto un testo costante nelle liturgie penitenziali e funebri cristiane, tanto che viene suggerito di usarlo come “atto di dolore” (in sostituzione del tradizionale e più noto “O Gesù d’amore acceso”), perché è preghiera biblica, e dunque parola di Dio. Quale orazione migliore di quella ispirata da Lui stesso?
Fa notare il Card. Gianfranco Ravasi che “nel salmo il protagonista ostile non è un nemico esterno, ma il peccato personale, visto come un incubo e la persecuzione più terribile per l’uomo. Il senso del peccato è vivissimo, come intensa è la coscienza che la riconciliazione è dono di Dio e non opera delle nostre mani. Tutti i moduli e gli schemi della supplica per la liberazione da un nemico sono allora trasformati e divengono quelli del “sacramento della riconciliazione”: lo squallore della prova si muta in confessione del peccato, l’implorazione di aiuto diventa domanda di perdono, il desiderio di eliminazione dell’avversario si cambia in supplica di cancellazione del peccato e di ritorno alla grazia, la promessa di sacrificio al tempio si trasforma in impegno di testimonianza missionaria”.
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