Medellin, seconda città della Colombia, alla maggior parte di noi ancora oggi rammenta violenza, droga, prostituzione, corruzione, abbandono di minori. Dentro a un’idea di contesto irrimediabilmente degradato.
Ebbene, Medellin è riuscita, in meno di due decenni, a capovolgere la situazione. La città del cartello del tristemente famoso Pablo Escobar, simbolo del narcotraffico, della violenza e della povertà, è diventata più bella e sicura grazie a un sistema di urbanistica sociale e a una serie di progetti che i sociologi hanno ritenuto ascrivibili a una sorta di corporativismo cattolico.
Che cosa è successo? E come è possibile modificare una realtà tanto difficile? Se penso a quante volte non riusciamo a incidere seriamente nel nostro contesto sociale per ridurre i problemi.
In breve qualche notizia sul miracolo “Medellin”. Fino a pochi anni fa nessun estraneo avrebbe osato mettere piede in quartieri come Comuna n.13, un tempo il più pericoloso di Medellín. Oggi ai turisti le agenzie di viaggio offrono tour per ammirare i bei murales del quartiere o per risalire i ripidi crinali della valle dove sorge la città, comodamente piazzati sulla lunga scala mobile che collega le zone basse a quelle alte della città che conta tre milioni e mezzo di abitanti. Medellín è diventata un modello di sviluppo urbano per l’intera Colombia e per gli urbanisti del mondo. E questo grazie a una ristrutturazione radicale che l’Economist chiama “redistributiva” e gli urbanisti hanno battezzato “pianificazione sociale”. Quest’ultima si basa sostanzialmente sullo sviluppo di infrastrutture nei quartieri più marginali con lo scopo di garantire a tutti l’accessibilità alle risorse della città e per integrare tra loro gli abitanti, indipendentemente dalla loro condizione sociale.
Questi interventi hanno portato nel tempo a un miglioramento della qualità della vita e a una riduzione del crimine, anche se alcuni problemi di Medellín restano gravi. Come ad esempio l’altissimo divario tra i più poveri e i più ricchi e i forti contrasti nei diversi settori della società tanto è vero che i quartieri abitati dalle persone più benestanti continuano ad assomigliare a Singapore e quelli popolari alle periferie di Dacca, in Bangladesh.
Le statistiche però confermano che negli ultimi anni la povertà è diminuita: il 19,2 per cento dei residenti vive ancora sotto la soglia di povertà ma questo indice è più basso della media di altre aree metropolitane del paese. Il tasso di omicidi, che era di 381 ogni 100 mila abitanti nel 1991, è sceso a meno di 50.
Le opere principali che hanno permesso il salto di qualità sono più che semplici infrastrutture di trasporto. La metropolitana aperta nel 1995 mette in comunicazione il nord e il sud della città: è perfettamente pulita, ha sistemi di sorveglianza in ogni stazione, conta biblioteche, librerie, centri culturali, sale da concerto lungo il percorso. Inoltre, un sistema di lunghe scale mobili esterne, integrato di recente da un sistema di cabinovie, collega con il centro i quartieri più poveri situati ai lati della valle dove sorge la città. Oggi le zone più popolari, collocate sulle colline, distano dal centro non più di mezz’ora: è così che circa 30 mila persone si spostano agevolmente ogni giorno dalle periferie al centro.
Il sistema è stato copiato da altre città: La Paz in Bolivia, Caracas in Venezuela, Rio in Brasile, e un progetto simile c’è anche a Lima, in Perù, e in due città del Messico.
Nel resto della città sono state aperte nuove scuole, costruiti ponti, attrezzati parchi che ospitano sculture moderne. La città è in fermento con progetti tuttora in divenire, ad esempio un parco fluviale e un “distretto dell’innovazione” che si pone l’obiettivo di diventare una replica minore della Silicon Valley.
Chi governa la città crede in una cultura politica ed economica innovativa e in un certo modo rivoluzionaria: il principio base è la collaborazione tra le diverse classi e categorie sociali, in opposizione alla società liberale, figlia della rivoluzione industriale. Il corporativismo cattolico deriva a sua volta da due elementi: dal carattere delle prime ondate di immigrati arrivati a Medellín, costituite da gesuiti e baschi, e dal fatto che Medellín, trovandosi in una valle isolata di una delle regioni più montuose del Sud America, si trova in costante competizione con la capitale Bogotà, fatto che ha indotto anche le élite a collaborare per rendere sostenibile la città. E infine, dagli anni Novanta, i rappresentanti del mondo politico, imprenditoriale, sociale, culturale: il Comune, le Ong, i Sindacati e le Università si incontrano periodicamente per discutere del futuro della loro città.
A dimostrazione del forte cambiamento sociale, nel 2013 Medellin è stata anche insignita del premio che l’ha incoronata “città più innovativa del mondo”. Ha battuto New York e Tel Aviv, ricevendo un riconoscimento prestigioso da tre importanti gruppi: il Wall Street Journal, società finanziarie come Citygroup e l’Urban Land Institute, un’organizzazione no profit.
La rinascita di Medellin si deve anche alla sua stessa comunità, resa consapevole del cambiamento e partecipativa, al punto che nel dialetto locale sono nate due nuove parole legate ai tempi. Una è “soyadera”, termine che racconta la volontà di vivere bene con ciò che si ha, senza troppe complicazioni; l’altra è “callehjar”, che sta per “gironzolare senza fretta godendosi ciò che la città offre”. Pratica quest’ultima, impossibile fino a due decenni fa per la pericolosità del contesto urbano.
Se si può a Medellin, possiamo sperare anche noi?
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