“Siamo in guerra!”. Il grido bellicoso è risuonato in città alcuni giorni dopo la tragedia di Parigi, città ancora abbastanza lontana dai guerrieri da salotto ma anche vicina perché l’eco terribile degli spari dei Kalashnikov non si perdesse nel vento. “Siamo in guerra” è stato il titolo provocatorio di un convegno, promosso anche dalla Lega Nord, che si è svolto a Varese nella Sala Montanari: l’ex cinema Gloria e Rivoli già di proprietà dell’Associazione Combattenti. Erano presenti autorevolissimi relatori. Che poi la guerra non l’abbia ufficialmente dichiarata nessuno, ma ne siamo ugualmente bersaglio da parte di banditi e fondamentalisti religiosi, com’è stato subito precisato, è anche intuitivo: l’uomo è un animale irascibile e spesso un criminale. Non solo se appartiene all’islam. Giusto che venga ricordato.
Tuttavia quelle parole – “Siamo in guerra” – hanno provocato un brivido sottile. E ciononostante nessun baldo giovanotto o convegnista per ora s’è arruolato. “Siamo in guerra”, meditavano con rassegnazione gli alpini dell’Armir. Stavano partendo per la Russia. Questi altri, magari, partono per una pizzeria, dopo il convegno naturalmente. E meno male che è così.
Il fatto è che il convegno è stato il secondo intervento – l’intervento ufficiale – di un altro precedente assunto dal consiglio comunale di Varese a guida leghista: il divieto per le donne musulmane di indossare il burqa, il velo che copre parzialmente o tutto il volto, un intervento che così d’acchito sembrerebbe un po’ meno guerrafondaio, ma pur sempre significativo. Quella decisione è stata già tempestivamente e con dovizia commentata da questo giornale.
S’è trattato, com’è evidente, di un provvedimento strumentale e forzato, e anche velleitario. Sarà stata la sfortuna o il caso, non lo so, ma in più di mezzo secolo di mia permanenza a Varese, cioè da quando la memoria mi soccorre, e in quarant’anni vissuti come cronista operante nel territorio mai m’è capitato di vedere una donna musulmana con il burqa, come le dodici e passa mogli dell’Emiro, ritratte nel film Amarcord di Fellini, scese negli anni Trenta al Grand Hotel di Rimini. Donne con il velo che ricopre il capo – lo portava anche mia mamma quando entrava in chiesa – sì ne ho viste spesso, specie negli ultimi anni alla Esselunga mentre fanno la spesa tutt’al più accompagnate dai loro mariti. Ma con il burqa mai.
Eppure il consiglio comunale leghista, con la sua decisione, ha voluto dissotterrare l’ascia di guerra contro l’Islam, pronunciando l’avvio di una nuova crociata. Altrettanto si può dire delle moschee la cui costruzione – sono luoghi di preghiera – porterebbe anche a creare covi di possibili criminali (ma allora, le chiese cattoliche di molte province e regioni d’Italia?).
Se però le contestazioni, la proibizione del burqa ha da vedere con qualcosa d’altro – il costume, la religione, la razza –, mi pare che ai consiglieri che l’hanno presentata e approvata sfugga la conoscenza dell’articolo 8 della nostra Costituzione, da loro stessi spesso chiamata in causa, che riportiamo nei primi commi: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano…”.
Le moschee potrebbero essere fuorilegge? Il burqa contrasta? Mah! Qualcuno ha ricordato, ma a nostro giudizio non del tutto a proposito, l’esistenza di una legge – la n. 152 del 1975 –, che già proibisce al cittadino di circolare a volto coperto. Ma il promotore di quella legge, l’onorevole Oronzo Reale, da cui la stessa legge prese poi il nome, non pensava probabilmente al burqa delle donne musulmane. Era, in quel caso, il rafforzamento di un concetto: i banditi – vivevamo allora l’epoca buia del terrorismo interno – si sa, si mascherano sempre, come nel Far West; identificarli e magari arrestarli prima che compiano qualche misfatto è sempre cosa buona. Che poi la legge sia stata sempre e severamente applicata, beh, dipende dai casi, dalle circostanze, dal buon senso: pensiamo alle feste di Carnevale (che faranno tra qualche giorno i vigili urbani comandati da Palazzo Estense?), ai sommozzatori pressoché “irriconoscibili” che si inabissano, ai motociclisti dotati di caschi aerodinamici che scorrazzano sulle strade; ma anche ai famosi black-bloks o ad altri manifestanti mascherati di tutto punto che in più di un’occasione hanno invaso le nostre città, senza che fosse loro imputata la violazione della legge Reale.
I criminali, i terroristi esistono, certamente. E noi abbiamo dichiarato loro guerra. A cominciare dalle donne col velo.
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