Dei quattro milioni e mezzo gli stranieri in Italia, oltre un milione sono residenti in Lombardia. La crescita demografica nella nostra regione ha infatti registrato picchi particolarmente elevati: il numero degli stranieri costituisce quasi l’undici per cento della popolazione, superando il dato nazionale che si attesta attorno al sette per cento. Anche il numero di studenti di cittadinanza non italiana presenti nelle scuole lombarde raggiunge quasi il dodici per cento sul totale degli alunni, contro una media italiana inferiore al sette per cento.
La fisionomia sociale delle comunità lombarde è quindi andata nell’ultimo decennio decisamente modificandosi, assumendo tratti nuovi, che hanno nel pluralismo etnico uno dei caratteri distintivi. La Lombardia, a partire dai piccoli centri per arrivare ai capoluoghi di regione, è quindi naturalmente chiamata ad essere traino, rispetto alle altre regioni, per quanto riguarda forme di integrazione e di coesione sociale.
Le cifre demografiche significano infatti che, alle nostre latitudini, è maggiore rispetto al resto del Paese il numero dei lavoratori stranieri, delle famiglie straniere, dei giovani cittadini stranieri.
Soprattutto è inevitabile l’esigenza di adottare un modo di “pensare plurale”, che parta da una realistica e coerente lettura delle caratteristiche attuali delle nostre comunità locali.
Il sistema di welfare, le politiche abitative, così come quelle di istruzione e formazione diventano pertanto gli strumenti e le opportunità attraverso cui implementare una progettualità sociale inclusiva e sempre più distante dalle anacronistiche forme di distinzione tra l’essere o meno autoctoni. Il numero sempre crescente di richieste da parte di cittadini stranieri, ad esempio, di case popolari assume oggi lo stesso significato storico-sociale che hanno acquisito le esigenze e le conseguenti politiche abitative negli anni Sessanta e Settanta, quando la nostra regione è stata fortemente caratterizzata da forme di migrazione interna al Paese, in prevalenza dalle regioni meridionali. Le esigenze lavorative e il sistema produttivo avevano richiamato allora un considerevole numero di lavoratori e famiglie verso il Settentrione, determinando l’esigenza di costruire un tessuto sociale di accoglienza. Interi rioni cittadini, anche a Varese, sono sorti proprio per dare risposte a quelle che sono state, nel tempo, le forme nuove che le nostre comunità hanno assunto. Le dinamiche sociali, la scuola, lo spontaneo aggregarsi delle persone attorno alle parrocchie, alle associazioni, alle opportunità che ogni singola piccola o grande comunità ha saputo creare e rafforzare hanno integrato, incluso, superato distanze che potevano apparire enormi.
E ancora più indietro negli anni le nostre zone sono state approdo di migrazioni dal Veneto, dalla Valtellina o dalle valli bergamasche. Ricordo qualche racconto di mio padre che, riconosciuto fuori di dubbio come un varesino che ha amato la sua città ma essendo in realtà bergamasco, nato in un paese della Val Seriana, anche da adulto spesso soffriva nel ripensare a come, venuto all’età di sette anni con la sua famiglia nel rione in cui anche io poi sono nata e ancora abito, abbia inizialmente subito qualche isolata forma di ostracismo da parte di alcune autoctone signore che indicavano i miei nonni e altri “forestieri” (si diceva così) come persone che “in vegnù chì a purtàm via ul pan de boca”. Persone arrivate a sottrarre il pane di bocca. La storia ha però sempre più fantasia delle nostre piccolezze e fortunatamente cammina con passo più fermo e sicuro di tante traballanti finte certezze. Con grande orgoglio perciò io oggi mi considero una varesina, frutto dell’inclusione.
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