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NOTTI MAGICHE

MARIO FRANCESCO CECCHETTI - 30/01/2015

Mario Francesco Cecchetti

Mario Francesco Cecchetti

*I ricordi professionali più belli riguardano la frequentazione, prima come studente interno poi come medico del Pronto Soccorso. Ho imparato moltissimo grazie ad uno splendido primario e a colleghi disponibilissimi e infermieri tuttofare con una gran voglia di lavorare e di insegnare i “trucchi del mestiere”. Senza di loro non sarebbe stato possibile imparare a fare medicazioni, confezionare gessi, assecondare le richieste degli infortunati.

Spesso i turni erano massacranti e le storie tragiche, ma l’ambiente, quando le circostanze lo permettevano, era allegro e, dopo non so quante ore di guardia e prestazioni di ogni genere, eravamo ancora in grado ridere e scherzare.

Prestava servizio un infermiere generico un po’ particolare di nome Astolfo con la pelle del volto butterata e lo sguardo stralunato dovuti ad uno strano infortunio occorsogli qualche anno prima. L’incosciente e sadico personaggio aveva legato un candelotto di esplosivo alla coda di un gatto. Accesa la miccia, aveva indirizzato il povero animale verso una porta ma non filò tutto liscio. Il felino decise di ritornare verso il suo carnefice, e di perdere il candelotto nelle vicinanze dello stesso con danni alla persona.

Il sottoscritto era stato affidato, dal direttore, a due giovani colleghi che, essendo gli ultimi arrivati del gruppo, erano costretti a coprire i turni notturni e festivi spesso in compagnia dell’Astolfo che, non avendo famiglia, sostituiva volentieri i colleghi che richiedevano di poter passare le festività a casa. Allo scrivente non veniva chiesto nulla. Era logico chr si aggregasse alla equipe di servizio.

Fu così che una notte di Ferragosto il gruppo si trovò a fronteggiare le emergenze di una Varese deserta e avvolta da una cappa di afa spaventosa. Il caldo era tale che, si dice, sudasse anche la lingua. L’Astolfo non ne poteva più e, a un certo punto, decise di togliersi la dentiera che, a sua detta, non andava bene come una volta. L’apparecchio venne depositato, avvolto in una garza, sopra un piccolo tavolino di servizio in sala gessi.

Arrivarono rare urgenze e di poco conto, una delle quali anche singolare. L’infortunato, alla guida della propria auto, era stato tamponato e a causa del contraccolpo aveva ingoiato un ponte dentario mobile della emiarcata inferiore. Era molto preoccupato nel vedere alle radiografie l’apparecchio mollemente adagiato nello stomaco e chiedeva istruzioni su come sarebbe stato il recupero. Nel frattempo venne sottoposto ad ulteriori radiografie del cranio previa rimozione della protesi dentaria superiore che, avvolta in una garza, venne deposta su un tavolino di servizio della sala gessi. L’unico tavolino di servizio della sala gessi!

L’Astolfo, sempre pronto a masticare qualsiasi cosa di commestibile si proponesse, venne invitato nel frattempo a mangiare del croccante e, pregustando il sapore delle nocciole e del caramello, si approssimò al famoso tavolino, tolse la dentiera dall’involucro e se la infilò in bocca.

“Bestia che dolore, non va più bene questa dentiera, il dentista non capisce niente, non posso più mangiare!”.

Rimosse l’apparecchio e lo scaraventò a terra fra gli sguardi straniti dei presenti ed un silenzio surreale. Cosa era successo? Incredibile ma vero! L’Astolfo aveva messo la dentiera del signore infortunato e l’aveva distrutta lanciandola a terra! Come potevamo spiegare l’accaduto al poveretto?

L’infermiere non si perse d’animo, fra le risate generali si allontanò dalla sala e con voce stentorea convinse il poveretto che non solo aveva ingoiato parte di una dentiera ma che nell’urto si era incrinata anche l’altra e mostrò i residui della stessa con un sorriso a trentadue denti, quelli della protesi di proprietà che aveva accuratamente rimesso in bocca.

Verso le due di notte non si sapeva cosa fare e si cercava un po’ di fresco sotto al portico delle ambulanze dove erano depositati i carrelli per lo scarico dei lettini. Uno dei miei colleghi, appoggiati i piedi sulla predella del carrello, si spingeva verso lo scivolo di accesso cercando di guidare quella specie di bob spostando il peso verso destra e verso sinistra.

Fu un attimo. L’Astolfo prese la rincorsa e con aria seria disse: “Dottore, provi a scendere verso l’uscita”. Il carrello prese velocità sulla discesa verso Viale Tamagno, il collega, persi gli zoccoli, non riuscì a frenare e incominciò il viaggio verso la portineria. Camice al vento, sembrava un enorme pipistrello bianco nella notte stellata. Le prove di manovra di qualche minuto prima davano frutti positivi e la sbarra aperta salvò il poveretto da impatti non voluti. Di fronte allo sguardo atterrito del portinaio, il chirurgo transitò dal varco d’uscita per fermarsi di fronte alla sede del giornale “La Prealpina” proprio mentre due redattori si trovavano sul portone.

A piedi scalzi, spingendo il carrello ritornò verso il reparto non prima di aver ossequiato il portiere con promessa di inviti a colazione presso lo spaccio per non so quanti mesi e di aver ricoperto d’improperi l’infermiere che lo accolse dicendo: “Dottore, come è andata?”.

Erano anni splendidi nei quali c’era sì voglia di divertirsi ma anche un immenso rispetto reciproco ed una gran voglia di lavorare e fare del bene al prossimo. Ognuno di noi ha preso strade diverse, qualcuno dice che abbiamo fatto carriera, purtroppo qualcuno ci ha lasciato in giovane età, ma quegli anni e quelle persone non potranno essere cancellati dai miei ricordi.

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*Tratto da “Via Scalette, racconti semiseri dei mei primi 50 anni”, di Mario Francesco Cecchetti

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