Le relazioni umane migliorano in proporzione alla loro varietà, alla loro intensità e alla loro compiutezza. Una di queste relazioni è data dalla nostra convivenza con gli animali, soprattutto – come è ovvio – con quelle pochissime specie che sono fortemente antropizzate, perché selezionate nei millenni per interagire con l’uomo entro condizioni abitative compatibili con l’esistenza della nostra specie.
L’antropizzazione ha consentito a questi animali di rendere visibili certe loro specifiche impronte singolari. Il comportamento animale resta predisposto, conforme ad un apprendimento di specie che tende a ripetersi nonostante gli ampi margini d’adattabilità all’habitat umano e ai comportamenti dei vari individui della specie dominante. Tuttavia, proprio questa plasticità rende possibile una relazione singolare con l’animale domestico.
L’asimmetria della relazione consente un’inversione peculiare e a prima vista impensata. L’essere umano è in quanto è individuo: la cultura lo ha sottratto alla naturalità del genere. Anche quando domestico, anche quando evoluto al punto di sapersi relazionare all’uomo, l’animale resta invece anzitutto genere. Ma nella relazione con l’animale che vive accanto a lui nel medesimo suo spazio, l’uomo svela a se stesso qualcosa – un’ ombra? – della sua arcaica, indatabile animalità originaria. A sua volta, nella relazione con l’uomo che vive accanto a lui nel suo medesimo spazio, l’animale svela non già a se stesso ma all’uomo che gli è prossimo, qualcosa – una luce? – della sua antropizzazione. In quanto perno della relazione, l’uomo coglie l’essenziale di sé come animale e attribuisce all’animale la sua essenzialità di individuo.
Benché privo di oggettività fattuale, questo ridislocarsi fenomenologico dell’essere umano lo arricchisce. Nel rapporto con l’animale l’individuo uomo vive una relazione di prossimità, di cura, di affetto, che si manifesta come pura, gratuita e totale, priva di fini pragmatici e calcolabili. Se autentica e non schizoide, una simile relazione ci migliora: ci addolcisce, ci ammansisce, ci placa, ci rasserena, ci sottrae al solipsismo cui spesso siamo costretti, ci chiede un minimo di responsabilità, ci sottopone ad un vincolo di cui non siamo padroni, perché l’animale – persino quando è ridotto a semplice giocattolo da compagnia – mantiene una sua indecifrabilità che ce lo rende sacro e che, di conseguenza, ci impone un grado di obbedienza alle sue regole ben superiore all’obbedienza che pretendiamo dall’animale per convivere insieme.
Detto banalmente, il quotidiano rapporto con un animale antropizzato ci rende più buoni, più sensibili, più miti, e soprattutto più essenziali e più semplici. Il sollievo che ci viene arrecato sembra poter riscattare le nostre mediocrità e miserie umane, e l’incitamento che ne deriva, rincuorandoci (restituendoci, appunto, un «cuore»), si riverbera sulle relazioni che intratteniamo con gli altri esseri umani, ci chiede di essere migliori e ci invita a chiedere agli altri che ci sono più prossimi di esserlo altrettanto, di corrisponderci nel reciproco e mutuo miglioramento.
Ben sappiamo quanti equivoci siano contenuti in questa relazione. Goebbels amava incondizionatamente i suoi cani, ma questo amore non lenì minimamente l’impulso criminale della sua persona e della sua ideologia. La relazione con l’animale non sostituisce la relazione con gli esseri umani; se lo fa, manifesta un lato patologico che può spingersi fino agli estremi inquietanti del braccio destro di Hitler. Reciprocamente, un cacciatore o uno sperimentatore su cavie possono essere meravigliose persone, capaci di umana pietà e ricche di valori molto più di tante persone che invece si mostrano benevole con gli animali e che non oserebbero mai sparare ad un fagiano o ad indurre un tumore in un topolino. Chi considera queste persone come mostri si fa portavoce di un fondamentalismo analogo a quello di Torquemada, di Berija e di Al Baghdadi, semplicemente meno pericoloso. Tuttavia, è indubitabile che una relazione con uno o più animali che si integri entro una solida e ricca relazione interumana giovi a quest’ultima, la arricchisca e ne rafforzi il tessuto.
Il fatto che la vita sociale dell’uomo sia dominata da relazioni che tendono ad escludere, o che non riescono più facilmente ad includere passioni positive come la prossimità, la cura e l’affetto, porta un numero sempre crescente di persone a concepire e a vivere la relazione con l’animale come un estremo rifugio, un caldo riparo dove poter percepire e manifestare mutualmente quella gratuità altrimenti negata, inaccessibile o fuori dalla portata delle nostre capacità. È questo sentimento gratificante nato da una parità emotivamente reale e pregante, benché obiettivamente equivoca, ad indurci a concepire gli animali come titolari di diritti, fino a voler estendere il binomio uguaglianza-differenza, che è esclusivamente nostro e che in nessun modo appartiene al mondo animale, alle relazioni tra le specie, e in particolare tra la specie umana e tutte le altre specie viventi e senzienti.
Alcuni filosofi – il più noto è l’australiano Peter Singer – si spingono ad opporre allo «specismo» (la presunzione dell’uomo di essere il signore della natura, e quindi la specie titolata a decidere il destino di tutte le altre specie in funzione della propria primazia e in subordine alle proprie necessità), la «liberazione animale», consistente di fatto in un diritto meramente negativo, il non dover più subire le logiche dell’imperio umano (ad esempio dello «sfruttamento», vero o presunto che sia in realtà, dell’uomo sull’animale, che giunge ai casi estremi, ed effettivamente ostici da digerire ai nostri attuali standard di civilizzazione, degli allevamenti in batteria, della riduzione di un’oca a puro fegato per il paté e di un ermellino alla sua pelliccia, della vivisezione, della ricerca farmacologica sugli animali ecc.), piuttosto che in un diritto di autodeterminazione positivamente fruibile.
Le contraddizioni cui va incontro questa teoria sono numerose e complesse da superare. E la possibile trasformazione della teoria in una dogmatica religiosa fondata su principi ferrei e mai negoziabili, possono creare problemi pratici difficilmente risolvibili, come la ricerca scientifica ben sa. Ma al pensiero contemporaneo, almeno in alcune sue tendenze, interessa molto meno la coerenza di una teoria e molto di più la sua efficacia. Anche una teoria non vera e non fondata può mostrarsi utile. Un esempio a tutti accessibile che conferma il «principio di efficacia» viene dal sistema tolemaico, teoria falsa e viziata da presupposti antropocentrici oggi grotteschi e però utile (nonostante qualche complicazione in più rispetto al sistema tolemaico) a calcolare le rotte dei naviganti, a formulare calendari o a predire eclissi.
Poco importa stabilire se siamo ontologicamente, siamo divenuti nel processo evolutivo o non siamo la specie dominante. Pragmaticamente, agire «come se» non lo fossimo facilita la nostra presa in cura non solo degli altri esseri umani, come si è visto, ma anche dell’insieme delle manifestazioni biologiche della vita: le future generazioni, le altre specie animali, le specie vegetali, l’acqua, l’aria e le risorse naturali, la bellezza e la varietà della natura non meno della bellezza e della varietà delle culture e delle loro espressioni più alte.
Il gatto che miagola alla nostra porta «non ha prezzo»: ci costa ben poco, e in cambio dona beni inestimabili a costo zero. Tanti doni istantanei, puntuali, e un dono durevole, se il miagolare di quel gatto educa e affina le nostre relazioni di cura: di tutte le relazioni le più dovute, perché questo è l’unico pianeta che abbiamo in comune con altri esseri viventi, e di tutte le più gratuite, perché nulla chiedono e nulla pretendono, senza alcuna sopraffazione.
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