Le motivazioni con cui il Tribunale del riesame di Roma ha confermato la carcerazione della cricca Buzzi-Carminati dimostrano, se ce ne fosse stato bisogno, la profondità della struttura criminosa realizzata dai due all’interno delle varie amministrazioni comunali capitoline. Ciò ha comportato negli osservatori più attenti la domanda su come sia stato possibile questo intreccio tra commesse sociali e mazzette, senza che alcuni degli organi preposti al controllo si sia accorto di nulla.
Non si tratta di una domanda di poco conto dato il clima di scetticismo e sfiducia (come s’è accennato qualche tempo fa) calato sulla capitale. Un recente sondaggio realizzato da SWG indica infatti nel settantacinque per cento la quota di italiani convinti che gran parte dei politici romani sia corrotta e nel cinquantanove per cento una immagine senza appello negativa della capitale.
La corruzione, a opinione di chi scrive, non può essere ricondotta soltanto alla mera disonestà degli individui coinvolti. Se la tentazione fa l’uomo ladro, puntare solo alla conversione della persona resta obiettivo ammirevole ma certo proiettato sul lungo periodo. La Roma pubblica è invece un tessuto di enti e corpi pubblici intermedi che moltiplica le posizioni di potere che si reggono sul consenso locale: il volume delle spese correnti (dati pubblicati sul sito del Comune) è aumentato negli ultimi anni a ritmi vertiginosi, passando dai quattro miliardi e mezzo del 2011 ai cinque del 2012 ai 5,6 del 2013
Tasse locali da Scandinavia, servizi da periferia d’Europa. Per dare un esempio del diluvio di soldi pubblici: la Gestione commissariale del Comune di Roma (che deve risanare i debiti contratti dalle varie amministrazioni a partire dal 2008) ha pompato nelle esauste casse capitoline tra il 2011 ed il 2013 oltre due miliardi e mezzo di euro. Nel 2014 il Governo Renzi ha autorizzato a scaricare sulla Gestione commissariale altri 600 milioni.
E non si tratta solo di municipalizzate. Enti, società “in house” la fanno da padroni. Un paper dell’economista Paolo Mauro per il Fondo monetario internazionale osserva come il brodo di coltura della corruzione sia dato dall’ampiezza dell’interventismo pubblico. Don Luigi Sturzo indicava già cento anni fa la ricetta: diminuire drasticamente la quota di risorse intermediate dallo Stato. Si può ridurre la corruzione attraverso la privatizzazione, non perché fideisticamente si pensa che nel privato non ci sia dolo: in un regime concorrenziale un impiegato infedele può ricevere una “mazzetta” per agevolare un fornitore. Ma questo di solito determina extra-costi che emergono rapidamente. Sulla disciplina di bilancio invece il pubblico non ha, almeno sui tempi, gli anticorpi necessari.
“Più società meno Stato” era uno slogan degli anni Novanta dell’associazionismo cattolico. I recenti fatti di cronaca ne sembrano dimostrare l’intatta attualità ed efficacia.
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