D. è quello che si dice un bravo ragazzo. Frequenta la quinta elementare. La madre lo incorona come un principino e se ne impossessa come se fosse un gioiello. Il padre, per compensare il senso di colpa perché è “assente”, lo colma di regali. I nonni lo coccolano. La zia l’ha presentato ad un concorso canoro ed è diventato una piccola star ed elemento di marketing per la pubblicità.
G. è un’adolescente. Frequenta la prima liceo. È un po’ obesa perché la madre la riempie più di calorie che di calore umano. Il padre scambia paternità, fatta di dialogo e di incontro, con paternalismo (“Se mi porti la sufficienza in matematica, ti porterò a sciare con me!”) che assume il sapore del ricatto. G. cresce solitaria, non ha amici, è sempre chiusa nella sua camera a “chattare” su internet. Si lascia andare nel vuoto dell’inerzia e della superficialità.
M. è professore alle medie. Ha quarantotto anni ed è entrato in ruolo quattro anni fa. Si sente vessato e avvilito. Quando entra in classe, mal sopporta la frustrazione di spiegare ai suoi allievi la bellezza di una poesia: davanti a sé ha il figlio dell’idraulico del paese che racconta in giro come lui guadagni in un giorno quello che il professore guadagna in un mese. M. tira a campare tra spiegazioni, correzioni di compiti, interrogazioni, interminabili riunioni. Ormai ha abdicato al suo ruolo di educatore ed è un rassegnato.
C. è affascinato dai mezzi di comunicazione e dalle nuove tecnologie. Ha una forte sensibilità sociale e vorrebbe mettersi al servizio degli altri, ma, ascoltando i ciarlatani di turno, è diventato scettico quando ha scoperto la banalità dei loro messaggi.
Quattro esempi di relazioni educative irrilevanti: il narcisismo di una madre, un padre assente che genera figli ma non sopporta la seccaggine di educarli, un insegnante disarmato, un giovane mal contento che diventerà protestatario.
L’emergenza educativa si dimostra in tutta la sua gravità non solo in questa carrellata. Ormai il rapporto educativo è quasi sempre disumanizzato e disumanizzante: è equivoco quando la madre tratta il proprio pargolo come un oggetto o quando il padre è latitante, è insignificante quando l’insegnante non lascia un “segno”, diventa frustrante quando non appaga desideri e speranze.
Il rapporto educativo oscilla sempre tra libertà e costrizione, tra assenza e presenza autorevole dell’educatore.
Penso a questo, facendo memoria di Giovanni Bosco, nell’anno che ci ricorda il bicentenario della sua nascita.
Don Bosco era solito dire: “L’educazione è un affare del cuore”.
Il cuore, non solo nell’antropologia biblica, è l’organo che include la dimensione affettiva e quella relazionale, la sorgente dei sentimenti, dei pensieri, dell’azione dell’uomo.
Nell’educatore il cuore ingrandisce nella tenerezza senza scadere nella sdolcinatura. Egli vede col cuore, andando al di là di ciò che è visibile: L’essenziale è invisibile agli occhi – dice Saint-Exupéry.
È il cuore il grande ignorato dalla pedagogia moderna che è ossessionata a dare spiegazioni con parametri puramente scientifici di marca anglo-sassone. È il cuore che spinge l’educatore a superare gli ostacoli, a vincere gli insuccessi, fino a far eclissare la sua presenza, ritirandosi quando, se padre, potrà parlare da uomo a uomo al figlio e, se maestro, vedere il discepolo superarlo in sapienza.
L’educazione richiede sì preparazione specifica, particolari competenze e doti, ma soprattutto molto cuore per poter condurre l’uomo verso la sua manifestazione.
Don Bosco dedicò tutta la sua operosa vita all’educazione, soprattutto a quella dei fanciulli e ragazzi più fragili, più poveri, emarginati: inventò l’oratorio dove si giocava, si cantava, si apprendevano le prime nozioni “della dottrina e della morale cristiana”, si pregava; istituì le prime scuole professionali; ideò tipografie e laboratori. I ragazzi e i giovani sapevano di trovare in lui un padre e bussavano alla sua porta, ma non li aspettava, andava incontro a loro cercandoli nei sobborghi più poveri della Torino sabauda della metà del XIX secolo e accoglieva i piccoli delinquenti, i ladruncoli, i malnutriti, gli orfani o gli abbandonati.
Era immerso nel suo tempo, attento al degrado sociale e morale, al disagio giovanile e affrontava le sfide di quell’epoca con la tenerezza del cuore.
Ancora oggi i suoi figli – i Salesiani – operano in tutto il mondo dove regnano povertà, fame ed oppressione, persecuzioni religiose, guerre, violazioni dei diritti dell’uomo, genocidi. In casa nostra, dove assistiamo rassegnati al basso livellamento morale, affrontano la sfida educativa con ciò che ha reso grande ed estremamente interessante la scienza, lo studio, l’arte, il lavoro, il bene.
Nella vita d’oggi senza sosta, senza pause di silenzio e di ascolto, senza possibilità di concentrazione, in cui non c’è posto per l’originalità di ogni relazione educativa, per le note irripetibili di ogni persona, per il suo timbro singolare ed inconfondibile, il lavoro, per chi ce l’ha, è un modo per estraniarsi; il canto si fa rumore; una passeggiata è solo evasione e frenesia; gli altri infastidiscono.
I seguaci di Don Bosco generano o fanno risorgere nuove vite: anche quelle col cuore indurito e pietrificato. Grande è il loro contributo per rinnovare questa nostra società disorientata. Lo fanno con la sapienza del cuore, ben sapendo che esso non potrà essere colmato se non con l’Infinito, l’Assoluto, con ciò che più conta.
Contribuiscono così a non fermare il cuore della società dall’infarto dovuto allo squilibrio di richiesta di offerta di proposte educative e dall’arresto cardiaco causato dall’inefficienza o dall’assenza di educazione soprattutto tra i più deboli.
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