Spesso facciamo cose importanti senza saperlo, seguendo un istinto naturale o una predisposizione d’animo che è parte integrante della nostra vita. Non siamo abituati a riflettere, a chiederci il perché di una parola o di un’ azione, viviamo animati da impulsi che non ci permettono di capire quello che facciamo, perché lo facciamo, qual è il fine di un atto. Agiamo con superficialità, senza pensare, schiavi delle convenzioni, di un tempo e di persone che non ci permettono di verificare, rielaborare, trovare risposte ai mille interrogativi che animano la nostra esistenza.
Agli Ospizi arrivo grazie alla volontà di un Consiglio guidato da un neuropsichiatra come presidente. Quattro mesi di prova vissuti come volontario, poi la sentenza: assunto! Il presidente mi comunica che sono idoneo a svolgere il ruolo di educatore. La prova è terribile. Immaginate un grande collegio cittadino che raccoglie orfani, figli di nessuno, ragazzi con situazioni familiari disastrose, giovani con tanta rabbia nel cuore alla ricerca di un porto di quiete dove depositare affetti mai provati e speranze deluse. Vorresti scappare, ma quello è il tuo cammino e non devi sbagliare, devi dimostrare a te stesso che la pedagogia non è una conquista cartacea, un colpo di fortuna o una convenienza finita bene, è il tuo essere che entra in relazione con quella società che conosci appena, una realtà fatta di mille problemi, di esseri umani la cui unica colpa è quella di non averne, dover lottare fin dall’inizio con la vita.
Le “armi” per combattere sono tante, ma bisogna vedere quali sono quelle adatte alla situazione. Una cosa è certa, le soluzioni devi trovarle dentro te. Le pagine dei libri sono solo ricordi polverosi e lontani. Il segreto è in un’analisi spietata di noi stessi, di chi siamo veramente e chi è quel prossimo che non ha avuto la fortuna di avere tutto quello che noi abbiamo ricevuto. E’ scavando senza pietà che possiamo incontrare la pietà, è perforando le incrostazioni dei nostri perbenismi che possiamo incontrare l’altruismo. Scavando scopro dei lati del mio carattere che non conosco, ma che sono lì, in attesa di essere portati alla luce. Mi violento. Devo abbandonare la corazza che mi porto dietro. Una corazza che poteva andar bene per le passeggiate sul Corso, ma che ora non serve più. Senti che hai dentro dei valori che non avevi mai conosciuto prima. Apro loro la porta e li lascio passare, perché vadano a depositarsi nel cuore di qualcuno di quei ragazzi che mi osserva con occhi sgranati, figli di malinconie e solitudini, di abbandoni e trascuratezze.
L’ospizio è grande, ci sono aule piccole e grandi, camerate, spazi per il gioco del calcio, per il tennis da tavolo, insomma c’è tutto quello che è necessario per affrontare la convivenza. Ma qual è il modo giusto? Lì per lì non lo sai, segui l’istinto, quello buono che ti ha permesso di superare indenne le peripezie universitarie, i quattordici mesi di servizio militare, l’approccio con la politica cittadina, insomma credi che la strada giusta sia essere se stessi, fermi e attenti, disponibili ma esigenti, onesti e leali, capaci di rispettare e di farsi rispettare, senza concedere troppo alla confidenza.
L’inizio è veramente una sfida. I ragazzi mi studiano e io studio loro. Il capo è un presidente, il direttore è un sacerdote con il quale instauro un ottimo rapporto, ci sono quindi gli educatori, il personale di servizio e poi c’è il Consiglio, formato da personale interno ed esterno, con il compito di prendere decisioni importanti. Catturo subito la stima di qualche giovanotto con una chiara propensione sportiva. In che modo? Sfoderando le mie doti nascoste di calciatore. Durante il pomeriggio gioco con i ragazzi, impegnandomi a fondo. Tiro fuori le mie carte, ce la metto tutta, cerco di fare bella figura. I ragazzi mi vogliono nella loro squadra: capisco che ho fatto centro. Saper giocare bene a calcio è un bel vantaggio. Nel giro di brevissimo tempo divento un numero uno. Trasmetto forza, energia, coraggio, proprio quello che vogliono. Di me sanno che si possono fidare. Piazzo la stessa energia nelle partite di tennis da tavolo, vincendo parecchie gare. Spesso la domenica li porto in un maneggio, dove possono apprezzare l’equitazione.
L’attività sportiva mi piace tantissimo e la sfrutto fino in fondo, perché la sento viva, entusiasmante, capace di legare caratterialità, modi di essere, diversità, capisco che su quel campetto in cemento del collegio maschile o nel verde della campagna ci giochiamo valori fondamentali e soprattutto diventiamo un gruppo forte e solidale, reattivo, capace di elargire sorrisi e di gioire anche solo per un dribbling fatto bene. Quando giochiamo siamo veri, autentici, capaci di tirar fuori il meglio di noi stessi. I ragazzi si misurano da uomini, sanno che non faccio sconti e proprio per questo la sfida diventa dura.
Qualcuno vuol fare il furbo, ma spengo i bollori e rimetto la palla al centro. Mi sento un po’ tutto, allenatore, padre, fratello, insegnante, sono consapevole che quei ragazzi non hanno bisogno di falsi pietismi, ma di persone vere, capaci di dare il meglio di sé con una virile asprezza. Mi rendo conto che è possibile restituire un po’ di freschezza a ragazzi cresciuti tra problemi di tutti i tipi. Capisco che l’attività sportiva è un toccasana, perché è aggregante, li fa uscire da stati di solitudine fisica e mentale, li stimola a cercare il compagno, ad aiutarsi a vicenda, restituisce il desiderio di dimostrare il carattere e di saperlo modellare.
Lo sport fa uscire allo scoperto valori inaspettati come la solidarietà, l’autostima, la determinazione, il piacere di sentirsi amati e gratificati. Mi rendo conto che vivono con più passione ed entusiasmo la loro caratterialità, uscendo dai pensieri e a dalle problematiche della vita personale. Io sto con loro, vivo con loro, li sfido, sto al gioco, dimostro che l’attività fisica è fondamentale. Di solito aggressivi e inquieti, diventano più tranquilli e attenti dopo una partita o una gita nel verde della campagna. Sport e natura sono un connubio vincente nella lotta contro il disagio, alimentano l’entusiasmo e la passione, la voglia di far bene, di esprimere tutto quello che passa per la mente. Può capitare di voler menare un compagno e di sapersi controllare, di uscire con parolacce e di capire di aver sbagliato, di non impegnarsi a fondo e di fare brutte figure incappando nello sberleffo dei compagni. Il gioco del calcio li stimola a far gruppo, a identificarsi, a ricercare ruoli e condizioni, a impegnarsi per essere gratificati dall’allenatore. È uno sport straordinario perché ti tiene incollato a un campetto, ai tuoi compagni, ti regala emozioni proprio quando non te l’aspetti, risveglia sentimenti e ti aiuta a raggiungere degli obiettivi. Ti insegna a fare i conti con il tuo modo di essere in relazione agli altri. Il pallone può trasformare la tua vita, dimostrandoti che tutto è possibile, anche diventare giocatori stimati o addirittura campioni.
Ricordo un giovane che aveva una grandissima passione per il gioco del calcio. Giocava molto bene e nel gioco si riappropriava di tutto quello che la vita gli aveva rubato. Lui, che non aveva conosciuto suo padre, che aveva sopportato l’idea di avere una madre prostituta e quella di essere stato messo in orfanatrofio in giovanissima età, aveva trovato nel calcio un compagno ideale, un amico che gli permetteva di mettere in luce le sue qualità umane e sportive, la sua voglia di essere presente nella società a pieno titolo, conquistandosi il suo spazio. Spesso ci incontravamo nella sua cameretta a parlare della sua vita, del suo passato, del suo presente e del suo futuro. Mi rendevo conto dell’inferno che aveva dovuto attraversare, ma lo sport modellava il suo carattere, lo rendeva competitivo, volenteroso di dimostrare le sue doti. La domenica era il giorno della sua rivincita sulle difficoltà della vita e lo dimostrava con un’eleganza di gioco studiata, capace di entusiasmare il pubblico presente. Con lui ho giocato diverse volte sul campetto del collegio e nel gioco abbiamo costruito una bella relazione umana, basata sulla voglia di condividere la bellezza di un gioco che sembra essere nato per regalare gioia a ragazzi tristi.
Mi rendo conto che lo sport è liberazione, affermazione, sicurezza, stupore, meraviglia, ricchezza, racchiude un mondo straordinario che si apre senza complessi e senza timori al dialogo con la vita, ti dà consigli e ti guida, come un amico che condivide il tuo percorso. Quanto entusiasmo e quanti sogni ad occhi aperti, quanta energia buttata tra muri di cemento molto più simili a una prigione. All’aria aperta o rincorrendo il pallone, quei ragazzi sviluppavano una personale relazione con l’ambiente, imparavano a interagire con tutto ciò che li circondava, scoprendo giorno dopo giorno qualcosa in più di se stessi e del mondo. Imparavano a gestire il loro carattere, a capire che esisteva anche un’altra dimensione della vita, molto più elettrizzante di quella che avevano lasciato. Ho trascorso un anno che non dimenticherò mai, perché mi ha insegnato tante cose belle, in particolare una: nel movimento sta il segreto di ciò che diventeremo. L’orfanatrofio del disagio aveva trovato una sua dimensione e io ho imparato che lo sport è veramente sport quando lo sai cogliere nella sua capacità di trasformare il dolore e la sofferenza in una conquista di libertà.
Tra partite di calcio, correzione di compiti e insegnamenti vari il collegio ha avuto un sussulto di umanità, ha regalato un briciolo di speranza a ragazzi condannati a una vita mediocre. Un’esperienza importante che mi ha fatto capire la forza della spontaneità, di un vita vissuta all’insegna della fantasia, di gioie inventate al momento, costruite sulla voglia di divertirsi, di creare un clima gioioso, aperto alle energie di tutti, capace di trasformare le condanne della vita in speranze d’amore.
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