Si è detto che solo in misura limitata la filosofia può essere d’aiuto a chi vive nella sofferenza. Tale aiuto non può profilarsi come lenitivo (sarebbe un inefficace placebo omeopatico), e può avere un utile ruolo terapeutico solo là dove occorra rimuovere dei presupposti logici errati all’origine delle valutazioni e delle scelte di chi soffre. La filosofia può invece esercitare un compito preventivo, nel chiarire in termini generali, a bocce ferme, i problemi esistenziali, e nell’addestrare ad affrontarli con scelte più consapevoli, senza con questo suggerire le vie da prendere mediante un prontuario dogmatico e ricette preformulate. La filosofia, al più, può sollecitare gli individui – nessuno escluso – ad abbracciare un’arte di vivere o – più precisamente – a cercare di vivere con arte.
L’arte di vivere è la vocazione più originaria della filosofia. Per almeno due millenni, grosso modo – per semplificare – da Pitagora a Spinoza, la filosofia non si è limitata all’aspirazione a costruire un sapere autonomo orientato al vero e al bene, ma su questo sapere ha innestato il proposito di rendere possibile una buona vita, di fornire dei modelli di saggezza cui ispirarsi per agire in una direzione razionalmente orientata. In verità il nesso tra saggezza ed esistenza non fu tipico del solo mondo greco: emerse anche in altre civiltà, spesso precedenti, in particolare in Mesopotamia e nell’Asia centro-orientale. Nel mondo greco quel nesso fu però formulato e cercato in modo più chiaro e consapevole.
Dall’età arcaica a quella tardo-antica, la ricerca di uno stile di vita filosofico si manifestò nel mondo greco e latino soprattutto attraverso scuole in competizione tra loro. I principi teorici di ciascuna scuola costituivano lo sfondo sapienziale dal quale veniva ricavata una dottrina morale. Questa a sua volta si traduceva in una serie di procedure, regole e norme valide per tutti gli adepti della scuola, da applicare nelle singole circostanze anche come strumento di distinzione nei riguardi dei membri delle scuole rivali. La personalità, l’autonomia di pensiero e l’azione divulgativa del fondatore e dei suoi più stretti seguaci erano cruciali per il successo della scuola. Le differenze tra le diverse scuole erano, ovviamente, notevoli. Tuttavia, possiamo individuare almeno tre elementi comuni.
1) Perché potesse ispirare gli stili di vita, la filosofia non andava considerata come una disciplina praticata in circoli ristretti, con temi e linguaggi altamente specialistici, bensì come un sapere accessibile a tutti, indipendentemente dalle condizioni giuridiche e sociali e dai livelli di acculturazione. Tutti gli uomini sono filosofi: tutti dispongono della ragione, tutti sono in grado di darsi delle convinzioni e di accedere alla verità.
2) La rigidità della pretesa uniformità e compattezza dottrinaria delle diverse scuole non lasciava spazio alle individualità nella libera applicazione delle norme di vita. Non infrequenti furono invece le ibridazioni, specie nel mondo romano, più incline all’eclettismo.
3) A un’azione didattica interna e a una divulgativa esterna, per intuibili ragioni di proselitismo, ogni scuola associava una serie di pratiche cui gli adepti erano tenuti sia per irrobustire i propri convincimenti, sia per predisporsi al meglio a tradurre le indicazioni della scuola in uno stile di vita coerente e applicato riflessivamente, con convinzione e non in modo meccanico. Gli “automatismi” erano il frutto della ricerca, non il loro mezzo. Tali pratiche servivano a rendere efficaci e fecondi i convincimenti, liberandoli dall’intellettualismo per tradurli in abiti mentali e abitudini di vita. Il filosofo francese Pierre Hadot, cui va il grande merito di avere restituito la filosofia antica al suo storico significato sapienziale, ha assimilato tali pratiche a veri e propri “esercizi spirituali”.
Nel mondo tardo-antico la pratica ormai millenaria di esercizi idonei a suscitare una vita buona si trapiantò nel cristianesimo, e in particolare nelle regole monastiche. Le differenze sono naturalmente enormi, ma non serve indagarle. La dottrina religiosa, o più esattamente teologica, prese il posto della filosofia sul ponte di comando. Ma i tre punti che accomunavano le scuole filosofiche antiche, si ritrovano tuttavia – opportunamente riformulati – nel cristianesimo del IV-XIII secolo.
Tra il XIV e il XVII secolo l’ispirazione originaria del pensiero antico riprese vigore tra i filosofi che cercavano di guidare la ricerca di una vita buona a presupposti autonomi rispetto ai dettami religiosi. Il culmine di questo percorso si ebbe con Montaigne, il vero fondatore dello spirito moderno. Il capolavoro di Montaigne – i Saggi – si muove nello spazio delimitato dall’esperienza riflessiva del soggetto – la conoscenza di sé – e, negli altri due lati, dal duplice magistero della storia e del pensiero classico. La sua prospettiva di ricerca muove dall’individuo, rinuncia ad offrire regole e bussole valide una volta per tutte, e tiene ben ferma la non definitività delle proprie convinzioni. Il soggetto diventa misura critica dei propri valori, e artefice della loro attuazione problematica nella singolarità delle circostanze.
La pratica della filosofia si vena di autobiografismo e ha senso solo in quanto sia parte del lavoro su di sé del singolo individuo. Montaigne restò però un caso isolato. La direzione che la filosofia avrebbe preso sarebbe stata quella di un distacco, sempre più accademico, specialistico e rarefatto, tra teoria e vita. Gli addetti ai lavori della filosofia e delle scienze si dimenticarono completamente di noi, degli addetti alla vita.
Un tentativo di ridare vita al senso originario della filosofia si è profilato nel corso del ‘900, tanto in ambito neokantiano quanto tra i pensatori di indirizzo fenomenologico. All’idea che la filosofia possa offrire un magistero, per quanto piccolo, alla vita individuale si è opposta però l’obiezione (a partire da Nietzsche) che sia in verità la sfera dei vissuti autobiografici a far propendere gli individui verso un orientamento filosofico piuttosto che un altro. Il movente autobiografico dell’indagine filosofica è oggi riconosciuto altrettanto quanto la ricaduta esistenziale ed esperienziale propria della consuetudine con la filosofia. Uso il termine consuetudine per enfatizzare l’approccio non professionale alle discipline filosofiche. La riflessione sugli stili di vita – di cui questa rubrica si fa portavoce divulgativa – è oggi un filone di ricerca tra i maggiori nella filosofia occidentale, e uno dei pochi che possa liberarla dalle gabbie accademiche. Questa ricerca ha abbandonato la pretesa platonica di ricavare l’azione morale da una dimensione strettamente sapienziale; prevale semmai un orientamento neoaristotelico, incentrato sul concetto di phronesis, che valorizza la «giustezza», la fruibilità del principio morale in relazione al soggetto e alle circostanze.
Da questo approccio sono nate, negli ultimi trent’anni, alcune forme di pratiche filosofiche, a forte connotato individuale, che potremmo assimilare a dei moderni esercizi spirituali in funzione della cura di sé. Tra esse, ci preme segnalarne almeno due: la pratica del diario, e in genere della scrittura autobiografica. intesa come interminabile esercizio introspettivo e riflessivo sui valori che ispirano la nostra esistenza; e la narrazione autobiografica di gruppo, attorno a focus problematici, che mira alla condivisione di esperienze tra soggetti in sé diversi e ad uno scambio destinato ad arricchire l’orizzonte di tutti i partecipanti, lasciando poi a ciascuno il compito di individuare le «scelte» ritenute più opportune per sé. Entrambe le pratiche possono servire ad orientare l’esperienza del dolore verso un arricchimento anziché verso una deprivazione.
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