Nell’articolo precedente abbiamo definito i limiti della filosofia: cosa essa non può fare, o pretendere di fare davanti al dolore. Ora vogliamo definire ciò che la filosofia può fare sia pur entro quei limiti.
Scrive Eugenio Borgna ne La dignità ferita: «La psichiatria, e anche la medicina, hanno a che fare con tematiche non solo scientifiche, ma radicalmente umane, come sono quelle della dimensione interiore del dolore e della malattia, della soggettività e dell’intersoggettività, della fragilità e del rispetto, della dignità come categoria etica ed esistenziale, della donazione di senso del dolore e della malattia; e la filosofia e la grande letteratura aiutano la psichiatria e la medicina, i medici e gli psichiatri, a meditare sul loro compito, sul loro modi di essere e di comportarsi». Reciprocamente, aggiungerei, i medici e gli psichiatri possono aiutare le anime dolenti negli inferni e nei purgatori del nostro vivere, ma è più importante in questo caso che siano i dolenti a saper aiutare se stessi. Diversamente dal piacere, ben difficilmente il dolore può essere condiviso, nemmeno nelle circostanze più empatiche. Qualcuno soffre per la mia sofferenza, ma quella sofferenza è, al nocciolo, solo mia. Il conforto empatico è insufficiente. Al dunque bisogna cavarsela da soli.
Il dolore – sia fisico che psichico – è l’impulso più forte e autentico verso la cura di sé. La cura di sé implica anche saper fruire non strumentalmente della relazione di aiuto da parte di altri, sapersi appoggiare agli affetti, ai consigli e alla vicinanza altrui. Ma da solo questo appoggio è una cura palliativa, un trattamento omeopatico anziché allopatico. Se il dolore è tenebra, va affrontato non andando a tentoni nel buio, ma cercando di procurarsi una luce.
Come già notò Severino Boezio, dobbiamo esternare il dolore a noi stessi, non viverlo in modo sordo. Se subìto senza controllo anziché venir preso per le corna, il dolore psichico assorda, calamita ogni cosa a sé, occupa tutta la scena della vita di chi soffre. Questa colonizzazione non è detto sia un destino necessario, semmai è soltanto un iniziale passo obbligato. Il secondo passo consiste nell’accettare la propria vulnerabilità e nell’attrezzarsi di conseguenza, nell’accettare di sperimentare la sofferenza, vivendola sino in fondo, senza respingere indietro la propria componente emotiva, senza anteporle diversivi, fini impropri, nascondimenti e censure. Non dobbiamo trasformare una crisi esistenziale in una tomba, né ridurre ogni cura a continui tentativi di evasione.
Quella che comunemente chiamiamo «depressione» si presenta di solito in due forme contraddittorie e complementari insieme: un opprimente ottundimento azzera le nostre difese e ci lascia in balìa di noi stessi; l’acuirsi della nostra riflessività, sia pure in forma patologica, torna di continuo al passato, alle circostanze e ai gesti, nostri o altrui, che ci hanno condotti a una sconfitta che viviamo come definitiva. Ambedue possono condurci a quella metaforica «tomba». Ma la seconda forma, l’iperriflessività, contiene una chance. Il dolore non annulla le nostre capacità di riflessione, di comprensione e di reazione, una volta che siano liberate dal circolo vizioso che ci muove a vuoto tra gli spettri del passato. Mentre l’emotività è un coinvolgimento nelle cui spire possiamo restare impigliati, la riflessività è anzitutto distanziamento. E il distanziamento è la condizione di ogni sapere e di ogni pratica razionale, inclusa la pratica della filosofia. Nell’attesa, nel prendere tempo davanti al male, può accadere che si schiuda una via. La distanza suscita attesa del bene, là dove la sofferenza può e sa attendere solo il male. Solo attraverso questo distanziamento possiamo affrontare anche il nostro ottundimento: «Parla – suggerisce la Filosofia a Boezio –, non lo celare nella mente. Se desideri che io ti guarisca, bisogna che tu mostri la tua ferita»; non abbandonarti alla «letargia», all’ammutolito sopore della mente piegata dalla sofferenza, all’incapacità di avvertire il flusso caldo dell’esperienza esistenziale.
L’Io porta sempre con sé delle ferite, e non tutte possono essere completamente rimarginate. Nessuno è invulnerabile, nessuno può corazzarsi a protezione dal dolore se non al costo di un imbarbarimento o di uno stato cronico di estraneazione letargica. La ricostruzione dell’integrità dell’Io non consiste dunque nel ripristino di una condizione precedente di equilibrio e benessere, ma nell’integrare le ferite via via patite, o inferte da noi stessi, entro un nuovo equilibrio, potenzialmente più solido e più ricco, che includa la possibilità e la memoria di un dolore per sempre inciso nelle carni.
«Il dolore – scrive Schmid – può avere fondamentalmente un duplice effetto: uno distruttivo e uno produttivo, e questi due momenti non si possono in alcun modo separare. Distruttivo, in quanto nella testa di chi soffre il mondo scompare. Produttivo, in quanto nella visione di chi soffre può nascere un mondo interiore del tutto nuovo.» La costante aspirazione del pensiero ad educarci a vivere filosoficamente è probabilmente irrealizzabile se non per una ristretta élite, ma esprime un bisogno millenario insopprimibile, quello della cura di sé mediante la riflessività, la pratica dell’autonomia e della scelta consapevole. Paradossalmente, la conquista di un’«arte di vivere» consiste anzitutto in un’«arte di vivere il dolore». Affinare le nostre risorse davanti al dolore, alle frustrazioni e agli insuccessi, significa affinare le nostre risorse nell’orientarci a mettere in valore le migliori qualità che scopriamo in noi stessi, e nel lavorare sui nostri difetti, le nostre lacune, le nostre zone d’ombra.
Come scrisse Montaigne, dobbiamo essere «gentili» con il dolore. La cura di sé è anzitutto accettazione di sé con dolcezza, moderazione e mitezza. Abbassare le nostre attese rispetto alla vita non è una rinuncia, una perdita, un atto di debolezza, ma un’opportunità per irrobustirci, per compiere un proficuo apprendistato nell’arte della vita a nostra misura e migliorare la nostra riflessività e la nostra capacità di scelta. La porta della gioia di vivere non è mai preclusa. La vita non è mai del tutto avara. Allontanare da noi stessi una rappresentazione competitiva dell’esistenza è la strategia più efficace per prevenire il dolore. La vita è, ed è giusto che sia, «un fallimento gioioso». Tutto ciò che arriva in più è grasso che cola.
Ci resta un ultimo aspetto da esaminare: quali sono gli strumenti per esercitare e praticare la cura di sé?
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