“La rabbia e l’orgoglio” è il titolo dell’articolo-intervista che, provocata da Ferruccio De Bortoli, Oriana Fallaci scrisse sul Corriere della Sera del 29 settembre 2001, e che poi estese a libro con lo stesso titolo. Perno dello scritto è la convinzione, furiosa e incoercibile, che – prescindendo dalla varietà dei contesti storico-geografici e socio-culturali – il mondo islamico sia un “unicum” sostanzialmente omogeneo, fondato su e permeato da una religione arcaica e immutabile nella sua identità aggressiva, violenta e maschilista. Un mondo totalitario nella pretesa di piegare tutte le nazioni, gli stati e le culture all’osservanza rigida di un costume sociale torbido, bigotto e sanguinario. Il mondo di Osama Bin Laden, il miliardario saudita fattosi asceta combattente, e allo stesso modo il mondo dei migranti di religione islamica, che dalla Somalia o dal Bangladesh, dalla Palestina o dall’Iran, dal Nord Africa o dall’Afghanistan sono generosamente accolti come amici e invadono con irosa arroganza i paesi europei per derubarne il benessere, lordando le nostre piazze, le nostre strade, le nostre case, finché la sproporzione demografica per il differenziale riproduttivo degli invasori non li porterà, acquisiti i nostri diritti di cittadinanza, ad appropriarsi della Fortezza Europa diventandone i padroni. Dopodiché, dobbiamo immaginare, svanirà la civiltà europea, trasformata nel nuovo incivile Islam universale.
La chiamata a raccolta dei volenterosi che, armati di orgoglio per la civiltà europea e di rabbia per l’aggressione islamica, Oriana voleva promuovere prima di arrendersi al suicidio dell’Occidente, era lanciata a tutte le parti politiche, di destra di centro e di sinistra, tutte biasimate a vario titolo per viltà e stupidità. In Italia, contestata a sinistra, la polemica venne ripresa dai mass-media e, in parte, dai politici di destra per agitazioni propagandistiche volte a rendere più difficile l’immigrazione extracomunitaria. Agitazioni dagli effetti deleteri, paradossali e controproducenti: si tradussero nella Legge Bossi-Fini e nel reato di clandestinità, il cui esito fu la moltiplicazione degli afflussi irregolari e lo straripamento della popolazione carceraria, sino alle censure dell’Unione Europea per la disumanità delle condizioni di vita dei detenuti. E sino alle stragi di naufraghi nel Mediterraneo, con la travagliata iniziativa di salvataggio “Mare Nostrum” e poi, finiti i soldi italiani, l’ambiguità europea di “Tryton”.
Nonostante la fallacia delle conclusioni cui conducevano le tesi di Oriana – travolgenti nel linguaggio secco, vibrante e magnifico, aneddotico e alto insieme, della grandissima giornalista, ma non per questo meno ideologiche – i massacri terroristici a Parigi tra il 7 e il 9 gennaio scorso hanno provocato in Italia una pericolosa ripresa, per di più sloganistica e quindi ancor più stereotipata, di alcune delle argomentazioni di “La rabbia e l’orgoglio”.
Soprattutto i giornali di destra si sono lanciati in generalizzazioni antislamiche, prive del fervore culturale e della sapienza argomentativa della Fallaci e quindi ben più cieche e irrazionali, sino a incitazioni alla vendetta ed esultanza per l’uccisione dei terroristi: “Uccisi, finalmente!” titolava “Libero” del 10 gennaio, tralasciando non solo considerazioni di umanità per chi pretende di appartenere a un livello di civiltà superiore a quella dei terroristi, ma anche più elementari considerazioni pratiche sul venir meno di preziose fonti informative sul radicamento e sui programmi della rete terroristica affrontata.
Con la consueta coerenza strumentale di chi un giorno difende la morale tradizionale e irride il progressismo radical-chic e il giorno dopo si trasforma in libertario doc, gli stessi ruspanti mass-media di destra – salvo il più dignitoso e acculturato “Foglio” – non esitano a proclamarsi tutti “Charlie Hebdo”, identificandosi con la rivista satirica francese che ha subìto l’assassinio dei suoi disegnatori e giornalisti. Il merito non interessa, l’orientamento antireligioso della rivista francese viene ignorato per un presunto moto solidaristico in difesa della libertà di stampa, in realtà solo perché torna utile a lanciare strali d’odio in direzione islamica.
Non importa che tra i morti ci siano anche musulmani, come il poliziotto prima ferito e poi freddato da un terrorista sul marciapiedi davanti alla sede di “Charlie”. Anzi, dà fastidio perché contrasta con lo schema ideologico del nemico islamico. Mentre dal Libano su Twitter compare un autentico Voltaire dei nostri tempi, Dyab Anoud Jahja, che dichiara “Io non sono Charlie, io sono Ahmed il poliziotto morto. Charlie ridicolizzava la mia fede e la mia cultura e sono morto per difendere il suo diritto a farlo”.
Nemmeno importa che diversi ostaggi ebrei nel supermercato kosher si siano salvati grazie a un commesso musulmano che li ha nascosti, per poi tornare davanti al terrorista autore dell’assalto. Si preferisce lanciare messaggi a effetto propagandistico e senza contenuto, come la pubblicitaria “pitonessa” deputata di destra che vuole pubblicare “Charlie” in Italia: anche con le vignette sulla sodomizzazione reciproca delle Persone Trinitarie? O sparare notizie di sangue sulla ferocia degli immigrati, come fa la versione on-line di “Libero” a tutte l’ore: e la delinquenza comune indigena è scomparsa? E la criminalità organizzata italiana, la sola con liquidità per comprarsi il sistema distributivo del Nord, che fine ha fatto?
E se in Francia la Le Pen conta di farci su il pieno di voti, in Italia scalpita sempre di più Salvini con le dichiarazioni sul mezzo milione di musulmani pronti a sgozzarci, anche sul pianerottolo di casa.
Un’isteria collettiva sembra volersi fomentare ad arte, per ragioni elettoralistiche, pur sapendo che il rischio terroristico vero si combatte con l’azione di polizia e servizi segreti efficienti (e leali), e non con la mobilitazione allarmistica degli italiani secondo lo schema infantile amico/nemico. Ancora più fallace di quello di Oriana, il richiamo identitario allo scontro di civiltà è oggi sempre più inappropriato e controproducente. Oggi più di allora, per eccesso di autoreferenzialità fa di ogni erba un fascio e scambia le cause con gli effetti.
La gran parte del mondo musulmano in Europa, con tutte le sue molteplici articolazioni, ha rigettato le azioni violente delle organizzazioni terroristiche, sia nel 2001 sia oggi. Dobbiamo e possiamo stupirci e indignarci che ci siano frange ultraminoritarie che non si uniscono al coro e inneggiano al terrorismo, anche quando non hanno il coraggio e/o la disperazione necessari per aderirvi? Dobbiamo gridare al complotto mondialista islamico perché i terroristi che agiscono in Europa, ed in Francia in particolare, sono immigrati ormai di seconda generazione, quindi già cittadini dello stesso stato, che parlano la lingua e hanno frequentato le scuole del posto, e quindi si presumono integrati? Dobbiamo interpretarla come sfrontata ingratitudine, segno evidente dell’inciviltà e della malvagità intrinseca nei musulmani?
È totalmente irrealistico, irrazionale, ipocrita e sconveniente farlo. Le frange estremiste e radicali sono inevitabili in una situazione obiettiva di integrazione solo formale, in cui le persone immigrate rimangono socialmente cittadini di serie B: ottengono mediamente risultati scolastici inferiori, abitano in case mediamente peggiori, restano per primi e più spesso disoccupati e quando lavorano devono più frequentemente accontentarsi di lavori più duri, meno gratificanti, meno pagati, con minori prospettive di carriera. Hanno redditi mediamente più bassi e minore potere d’acquisto, scivolano più facilmente nella delinquenza e nei circuiti penitenziari, devono ricorrere più sovente all’assistenza pubblica e alla carità privata. Si sposano solo tra loro, sono indotti a relazioni amicali e parentali entro la propria cerchia etnico-religiosa, frequentando i luoghi di divertimento rischiano le risse. A fatica, devono adattare i garage a luoghi di culto collettivo, o mettersi a pregare sui marciapiedi se gli abbassano la saracinesca. Non sono mai protagonisti dei prodotti di intrattenimento televisivo e difficilmente possono aspirare a divenire icone pop. Le loro speranze e il loro futuro oscillano in genere tra il grigio ed il nero, il loro cielo si tinge raramente d’azzurro o di rosa. Segregazione sociale e ghettizzazione territoriale – le banlieu parigine sono luoghi dell’anima prima che del corpo – li rinchiudono in orizzonti ristretti, e l’umiliazione ricorrente fa maturare rancori e risentimento verso tutto e tutti. Altro che civile amicizia e ospitale illuministica generosità: la “civiltà occidentale” dà loro le briciole del pasto, cui formalmente li ammette con la cittadinanza e la scuola pubblica; di fatto, mangiano i resti nel sottoscala.
Lo stupore vero dovremmo averlo per il fatto che la maggior parte di loro subisca e si adatti, e riesca a conservare la speranza di un ascensore sociale che funzioni pur a rilento e con improvvise interruzioni, e che non li costringa a rinunciare allo straccio d’essenza identitaria che gli rimane: quella etnico-religiosa. Stupirci che chi deride quell’identità non inneschi una bomba a tempo, facendola esplodere negli elementi più fragili ed inclini alla devianza? Il coraggio della satira libertaria starebbe nel deridere non il potere ma l’impotenza (ribollente) degli ultimi della scala sociale?
Francamente, c’è da apprezzare la satira italiana, anche la più violenta, che ha sempre deriso i potenti e mai le idee o credenze, a confronto con quella radical-chic alla francese, che se la prende con le idee e credenze degli ultimi. Il che ovviamente non significa giustificare la violenza omicida dei terroristi (come, nemmeno, della delinquenza comune che s’innesti sul disagio sociale), perché riconoscere il valore e la dignità di tutte le persone, in particolare degli ultimi, significa riconoscere – tra l’altro – che anche a loro rimane la libertà di scegliere tra bene e male, e che la maggior parte sa scegliere il bene in mezzo ad ogni sorta di difficoltà.
Allora il doppio schema “amico-nemico/scontro di civiltà” non funziona proprio. L’integrazione formale, sui diritti civili, e non sostanziale, sulla condizione socio-economica, non costruisce coesione ma crea le condizioni per un esplodere della divisione nella forma dell’invidia sociale. Una nuova forma della lotta di classe del passato si manifesta nelle contrapposizioni etnico-religiose tra cittadini originari e cittadini immigrati, che serpeggia sino a esplodere soprattutto nelle seconde generazioni di immigrati, perché sono quelli ai quali è stata data l’illusione della cittadinanza paritaria, che mancava alla prima ondata migratoria. La delusione è più cocente, le esplosioni più probabili statisticamente. E nascono più facilmente i miti negativi, nichilistici, della distruzione dei simboli di quella “civiltà occidentale” che a loro non garantisce lo stesso benessere che riserva ai propri membri doc.
Tanto più se, per gli immigrati musulmani, i miti negativi trovano aggancio nei riferimenti internazionali alla Palestina, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria e da ultimo all’ISIS, che traducono su scala mondiale analogo rifiuto dei simboli della civiltà occidentale quale fattore causale del sottosviluppo, prodotto dal colonialismo imperiale prima e dal neocolonialismo economico poi. Lì le forze combattenti, tramontata la forza trainante del marxismo dopo la caduta del Muro di Berlino, poggiano sull’interpretazione integralista dell’identità religiosa islamica il motore ideologico del conflitto armato. E se la mobilità internazionale consente di andarci in “vacanza d’istruzione bellica” con l’incoscienza della giovinezza, se ne ritorna fanatizzati e pronti al massacro, travestito da martirio.
Sono, come da tradizione del conflitto sociale, gli “anelli deboli” a confondere la lotta con la devianza criminale, a trasformarsi in bombe che camminano. Si vedano le biografie e i curricula, così intersecati con scontati percorsi delinquenziali, dei tre terroristi francesi del 7-9 gennaio: i due fratelli senza genitori e cresciuti in case-famiglia, tutti con facce depresse da coatti lombrosiani, spaccio e periodi in carcere come scuola d’indottrinamento dogmatico, squallide vite perdute che paranoicamente s’illudono di riscattarsi nella distruzione del mondo che li circonda.
Il contrasto al terrorismo jiadhista è questione di politica internazionale, e ci vorrebbero enciclopedie intere a dibattere dei clamorosi errori strategici dell’Occidente negli ultimi decenni, prima promuovendo e poi inseguendo leadership arabo-musulmane corrotte ed autoritarie purché prone agli interessi delle multinazionali petrolifere ed ai residui della Guerra Fredda, salvo vedersele rivoltare contro – apertamente o subdolamente – quando il loro potere economico-militare si fosse consolidato, le convenienze cambiate, le idiosincrasie ideologico-culturali ingigantite, le megalomanie geopolitiche moltiplicate. A noi cittadini, più modestamente, riguarda e fa appello l’esigenza di una relazione giusta con gli immigrati di religione musulmana, da “indigeni” che si pretendono “civili”.
La rabbia e l’orgoglio, in verità, è binomio più pertinente per gli immigrati che per gli indigeni, perché partono svantaggiati. Perciò alimentare la rabbia e l’orgoglio degli indigeni serve solo a promuovere contrapposizioni che inducono gli immigrati a sentirsi assediati, a chiudersi nel recinto identitario etnico-religioso anziché aprirsi al dialogo e alla relazione; rinfocolando reciproci pregiudizi, fraintendimenti, diffidenze, sospetti: catena senza fine di microconflittualità, più o meno latenti ma in grado d’erompere alla prima miccia. Passare sotto i portici della città e vedere che i ragazzi si aggregano su base etnica è un segnale di pericolo, vederli mischiati per colore della pelle, tratti somatici, accento, stili di vestire e atteggiarsi, spalanca il cuore. Piccole scintille di vera accoglienza e vera civile amicizia.
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