La lettera di XY mostra quanto il dolore psichico possa essere invasivo. Non ammette tregua, al più diversivi. Essere e soffrire si identificano. Il sé è il suo dolore. La vita psichica, la sfera della coscienza ne è talmente compenetrata da rischiare la dissoluzione. La riflessività si esaspera, l’intima osservazione di se stessi è vivissima, ma la volontà di reazione sembra sempre, almeno nelle fasi più acute, sul punto di capitolare.
Per questo la malattia dell’anima è lo scoglio contro il quale si infrange il presupposto – ma potremmo dire altresì la pretesa – che la pratica della filosofia in chiave autobiografica (una sorta di «terapia delle idee» che dovrebbe vagliare la tenuta delle nostre concezioni del mondo e porre sotto esame la nostra effettiva capacità di concettualizzazione critica), possa essere lo strumento più idoneo, specie dopo la crisi teorica di molti princìpi delle tante scuole psicologiche che hanno attraversato il ‘900, per affrontare consapevolmente i diversi problemi dell’esistenza quotidiana.
Per quanto ci si possa attrezzare ad esaminare riflessivamente le ragioni e gli effetti della nostra sofferenza (e certamente XY è molto attrezzato in tal senso), al fine di indirizzare le nostre volizioni verso uno stato di guarigione, ci si scontra sempre con un dato inoppugnabile: contrariamente all’utopia socratica di poter indirizzare tali volizioni a partire da una dimensione cognitiva, schiettamente razionale, di cosa sia il bene, vi è una sfera del nostro agire, o meglio del nostro «stare-nel-mondo», che si mostra quantomeno refrattaria a sottoporsi ai comandi della ragione.
Incontriamo qui il limite di aderenza alla vita che caratterizza la filosofia, incluso il filone cui io stesso mi ispiro: quello che, sulla scia delle ricerche di Pierre Hadot sulla storia del pensiero antico, intende la pratica della filosofia come esercizio spirituale adatto alle condizioni della modernità riflessiva, ossia alla singolarità di ciascuno, diversamente dagli esercizi propri di una lunga tradizione di scuole che rimonta al pensiero greco antico, poi proseguita in età classica ed ellenistica fino ad innestarsi nel pensiero cristiano, per concludersi ora con l’umanesimo, ora con Ignazio di Loyola e le tensioni interne ai cristianesimi del ‘600.
Là dove tutte le scuole pretendevano di offrire, ciascuna secondo i propri fondamenti, una loro ricetta valida sempre e per tutti, la modernità riflessiva inaugurata da Montaigne cerca soluzioni critiche capaci di calarsi nella dimensione della singolarità, per adattarsi alle caratteristiche proprie sia dei problemi che del soggetto chiamato ad affrontarli. Ma neppure la riflessività, appunto, sembra poter varcare la soglia dei vissuti fino a governare secondo scelte razionali l’insieme della nostra esperienza e delle nostre scelte. Se così fosse, in una società quanto mai sofferente quale la nostra, specie dopo l’inesorabile tramonto del nesso instauratosi nel senso comune tra prosperità e felicità, tutti correrebbero a dotarsi di una formazione riflessiva filosoficamente orientata e di strumenti di indagine autobiografica, onde poter risolvere con semplicità e rigore logico ogni problema esistenziale nei modi più opportuni per ciascuno. Ma così non è. Forse dovremmo far nostro – sto parlando di quella nicchia, non necessariamente professionale, che chiamiamo filosofi – il limite posto dal versetto biblico: «Ingannevole è il cuore dell’uomo, e chi lo può conoscere?» (Geremia 17, 9).
Altrettante difficoltà investono le cosiddette «scienze della psiche». Il divario con le scienze matematiche e con le diverse rivoluzioni scientifiche e tecnologiche che si sono susseguite una dietro l’altra nel ‘900 è enorme. Ma non è questo divario l’elemento importante. La possibilità di aiutare in modo efficace chi soffre sul piano psichico è molto ristretta, quale che sia la «scuola» di riferimento tra i vari indirizzi della psichiatria, della psicoanalisi e della psicologia. Troppe sono le incognite: la qualità del terapeuta, la scarsa fondatezza epistemologica di molte metodologie, la durata, i costi e l’efficacia della terapia. Meglio comunque tentare una terapia, purché scelta a ragion veduta e non «alla carlona», piuttosto che affidarsi alla farmacologia. Il Prozac – un farmaco molto diffuso – surroga tutto e tutto lascia come prima, se non peggio, perché – dopo aver chimicamente nascosto il male – se lo ritrova definitivamente incistato.
Per questi motivi non ho nessuna risposta, nessun consiglio da dare a XY. Posso solo offrirgli la mia esperienza personale. Non esistono terapie mirate per le malattie dell’anima. Qui la filosofia non sa additare uno stile di vita: meno che mai l’insulso «chiodo scaccia chiodo». Al più si può invocare il valore indirettamente terapeutico della confidenza, dell’amicizia e dell’affettività. Tenere per sé il proprio dolore, isolarsi lasciandosi scivolare nella melanconia, nella depressione e dell’angoscia, non cercare l’appoggio degli altri, rassegnarsi sono sintomi comuni nelle malattie dell’anima, e i loro effetti finiscono per aggravarla in una spirale sempre meno controllabile. Ma confidenza, amicizia ed affettività vanno esercitate; nel momento di difficoltà, i più si trovano sprovveduti proprio per non averle praticate con la dovuta profondità, intensità e durata.
Affiorano semmai dei lenimenti – «l’effetto placebo del tempo» – che mutano in ragione dei vissuti intrasoggettivi, della capacità di offrire e chiedere aiuto, delle energie psicosomatiche, della reattività del carattere, dell’età e di tante altre cose. Tutta la vita è uno stato di attesa: questo ci insegna, al più, la filosofia. Non ci resta che attendere, fiduciosi che – prima o poi – il dolore possa passare e nuove vie si schiudano. Non ogni fine è a sua volta un principio. Ma può esserlo. Per preparare questa possibile ripresa, la filosofia può al massimo svolgere un ruolo di sussidiarietà.
Caro XY, auguri. Questa è la sola chiusura dell’articolo che mi sento di scegliere.
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