Con Anselmo d’Aosta (1033-1109) si può parlare giustamente di una ripartenza in grande stile della filosofia dopo i lunghi secoli della sua servitù teologica. Egli ripropone l’indiscussa centralità della ragione (non il primato), restando certa l’assoluta imprescindibilità della fede per l’essere umano al fine della salvezza, forma principe della conoscenza di Dio. Dopo di lui Abelardo oscillerà tra il concepire la ragione come qualcosa di totalmente separato dalla fede e il fare svigorire la fede sulla ragione, limitando di fatto la teologia all’ambito della dialettica. Lanfranco di Pavia invece aveva dichiarato non legittimo l’uso della ragione senza l’autorità delle Scritture o dei Padri.
Nel prologo del Monologion (Soliloquio, 1076; sottotitolo: Exemplum meditandi de ratione fidei) Anselmo chiarisce il senso della richiesta che gli veniva dai confratelli dell’Abbazia di Bec: che assolutamente non fosse aggiunto per la meditazione nulla con l’autorità delle Scritture, ma che l’esito di ogni ricerca venisse breviter concluso dalla necessità della ragione, in uno stile semplice e con argomenti comuni e manifestato apertamente (patenter) dalla chiarezza della verità (quatenus auctoritate Scripturae penitus nihil in ea persuaderetur. È il discorso che l’anima fa con se stessa, alla stregua di Agostino. L’aspetto noetico è legato con la dimostrazione. L’esistenza di Dio è provata con argomenti a posteriori (dalla creatura al Creatore).
Solo che la concatenazione dei molti argomenti presenti nell’opera costituisce una molteplicità. Anselmo invece ha bisogno di un’unica argomentazione per dimostrare non solo l’esistenza di Dio, ma anche per orientare la parte relativa all’indagine sull’essenza divina sul fondamento del principio: non cerco di comprendere per credere, ma credo per comprendere (“Se non crederò non comprenderò – Isaia 7,9). È il credo ut intelligam di Agostino (fides quaerens intellectum). Ecco allora comparire nel Proslogion (1078), colloquio articolato in forma di preghiera, il famoso argomento ontologico (capitoli 2-4). L’esistenza del concetto di Dio nel pensiero postula che esista nella realtà. Se pensiamo a qualcosa di cui nulla di più grande possa essere pensato, ma che non abbia l’attributo dell’esistenza, non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore, cioè quanto di più grande possa essere pensato. Nella nostra mente esiste il pensiero di Dio, è impossibile anche solo pensare che Dio non esista. Ora al centro dell’attenzione è l’elemento discorsivo del linguaggio. Gaunilone obietterà che si tratta di un salto dall’assetto logico a quello ontologico.
La ragione deve poi per Anselmo informare di sé l’esistenza nel senso di un rigore e condotta esemplari (nessun dualismo tra teoria e prassi). Rientra nell’ordine naturale delle cose il fare ciò che si deve (rectitudo). La rettitudine sta a monte sia della sfera intellettuale (veritas), sia di quella pratica (giustizia). Il dovere come dover essere esige che l’uomo debba divenire tutto ciò che può essere su una base rigorosamente volontaria (non liberum arbitrium, sed libertas arbitrii). Vivere è una vera e propria ascesi razionale secondo i precetti universali, che la ragione filosofica scopre e si tratta di una razionalità necessaria (l’ordine della ragione riflette l’ordine intrinseco delle cose), laddove per Kant invece l’imperativo categorico è sì un dovere, ma rigorosamente soggettivo.
Per Anselmo il potes peccare esprime un difetto, non un pregio; è chiamata in campo la potestas di serbare la rettitudine della volontà per la rettitudine stessa, che è sempre presente nell’uomo e la giustizia è la rettitudine serbata per se stessa. Estraneo alle mode perciò Anselmo ritiene un’inutile strage quella promossa dalla Crociata in termini di scontro di civiltà ai fini della salvezza.
La guerra, sia concettualmente, che a livello pratico, è la perfetta negazione della rettitudine in quanto irrazionale.
Altre opere di Anselmo da citare sono tre dialoghi incentrati sul tema della libertà: De veritate, De libertate arbitrii, De casu diaboli. Con l’Epistola de Incarnatione Verbi Anselmo mantiene le affermazioni tradizionali sulla Trinità, mentre secondo Roscellino le tre Persone dovevano essere separate al punto da costituire tre Dei, oppure così unite da essersi incarnate al contempo. Anche sul cosiddetto Filioque Anselmo si trova in opposizione alla tesi della Chiesa greca, che lo contesta e lo nega. In relazione al problema posto dal peccato originale Anselmo nella grande opera teologica della maturità, il Cur Deus homo, sostiene che solo un Dio può appianare il debito che l’uomo di suo deve colmare in conseguenza del peccato e della ribellione di Adamo. La soddisfazione attuata da Cristo non esime comunque ognuno di noi dal fare la propria parte nel raddrizzare l’intero universo.
Le notizie sulla vita di Anselmo si trovano nella biografia composta dal monaco Eadmero, suo collaboratore a Canterbury. Nato da Gondulfo di origini longobarde e da Ermenberga, di famiglia nobile burgunda, si orienta ben presto verso la vita monacale, cui rinuncia dopo la morte della madre. Nel 1056 si avventura in un viaggio verso la Francia meridionale alla ricerca di un centro di cultura, che finisce per trovare presso il monastero di Le Bec in Normandia, di cui diviene priore nel 1063, quando Lanfranco è nominato abate dell’Abbazia di Saint-Etienne a Caen. Nel 1078, in seguito alla scomparsa dell’abate Erluino, gli succede in tale funzione a Le Bec. Trovandosi più a suo agio nel ruolo di mistico, di promotore culturale, che in quello di amministratore, con una innata propensione all’isolamento e alla preghiera, delega gli affari del monastero alla cura sollecita di quanti gli danno affidamento dal punto di vista organizzativo, preferendo la contemplazione di Dio, l’istruzione e l’ammonimento dei monaci. Il 4 dicembre 1093 accetta la nomina ad Arcivescovo di Canterbury sotto il regno di Guglielmo II, col proposito però di difendere il primato di questa sede sulle altre diocesi e di anteporre sempre le questioni religiose a quelle politiche. Nel 1095 nel Concilio nazionale di Rockingham pronuncia un discorso per sostenere la supremazia dell’autorità papale.
Nel 1097 è alla volta di Roma, dove consiglia Urbano II di non scomunicare il sovrano inglese, che non l’ha riconosciuto rispetto all’antipapa Clemente III. Anche con Enrico I si rinnovano le difficoltà concernenti le investiture feudali, tanto che solo nel 1107 può fare ritorno in Inghilterra dall’esilio, riassumendo la sua carica a Canterbury. La sua esistenza si chiude colla continua meditazione su temi teologici, nel caso rispecchiati nell’opera De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio.
Nel 1494 Alessandro VI dà l’autorizzazione formale al culto di Sant’Anselmo, già diffuso. Nel 1690 è proclamato santo e nel 1720 Dottore della Chiesa da parte di Clemente XI.
In tema di pace e di guerra risuona pur sempre attuale il suo monito (Lettera 19 al nobile Guglielmo): mettiti invece in cammino lungo la via che porta alla Gerusalemme celeste, che è una visione di pace, dove troverai un tesoro, che però è al riparo dalle mani dei contendenti. Nessuna guerra santa.
You must be logged in to post a comment Login