“Una sola cosa possiamo fare: stringerci attorno alla famiglia” – ha detto don Stefano alla comunità di Morosolo radunata in chiesa per l’Eucarestia della festa dell’Immacolata.
Il pensiero è andato subito a quella famiglia. La pietà ha preso il posto al chiacchiericcio, la compassione all’eccitazione della curiosità. Restava forte la voglia di conoscere, di capire, ma davanti al profondo, umano disagio non potevamo altro che restare in silenzio. Forse, potevamo tentare di comprendere nel senso etimologico della parola: “con-prendere”, prendere con noi, nel nostro cuore e custodire lo strazio di una moglie e madre, il cruccio dei figli.
“Come può succedere questo?” – ci chiedevamo. La risposta è venuta da don Stefano, non solo pastore, ma profondo conoscitore dell’animo umano: “Sì, può succedere”.
Nel guazzabuglio del cuore umano albergano odi e rancori, gioie miste a dolori, messaggi di speranza e di disperazione.
Tutto è avvenuto in un contesto tranquillo e pacifico, pervaso da tradizioni secolari, in un intreccio fatto di rifiuto del cambiamento e di resistenza a manifestare i conflitti, da un senso religioso che anima una comunità cristiana sempre più sparuta, in un ambiente medio-borghese, dove il danaro viene accumulato non per frenesia del possesso, ma per mandare avanti una famiglia, nel narcisismo di tanti e piccoli gruppi che operano sì per fare il bene, ma in cui ognuno tiene l’altro in un clima di autoreferenzialità senza futuro.
A scuola i ragazzi sono contenti perché il divertimento e il gioco sono più grandi della fatica che forgia un carattere. I genitori sono felici perché i loro pargoli lì socializzano: fuori dai cancelli non si ritroveranno più per giocare liberi e spensierati, programmati come sono tra la lezione di judo, piscina, corso di danza, catechismo e squadra di calcio, tanto più che abitano lontani gli uni dagli altri e il loro stare assieme avviene soltanto tra i banchi di scuola.
“Come può succedere questo?” Perché ci chiediamo questo solo quando televisione, giornali ed internet parlano del nostro piccolo mondo? Non sappiamo che l’aria del pianeta – oltre che da smog – è inquinata da violenza portata anche qui dai mass-media: quella degli stadi, della guerra in diretta, dei lanci dei massi sull’autostrada, dei processi ai “mostri”, dei video-giochi fondati sulla eliminazione di qualcuno o di qualche cosa.
È così che nasce la diffidenza per il diverso. Per quello venuto da fuori: una volta i “polentoni”, più tardi i “terroni”, adesso i neri e i “forestieri”, quelli che “non sono di qui ma di Sant’Eusebio”.
La paura allora porta alle relazioni umane effimere, alla chiusura della comunicazione.
L’uomo, bisognoso innanzitutto degli altri e dell’Altro, tenta di fuggire da questa realtà ed elabora strategie per sottrarsi da questa povertà: per molti il paese è solo un dormitorio dove riposare alla fine di una giornata stressante. In famiglia si vive tra armistizi e riconciliazioni e poi di nuovo tra altre aggressioni in un circolo vizioso che rinforza l’inimicizia. I figli crescono con la tendenza al distacco non dentro la famiglia, ma contro la famiglia. Chi deve studiare, evita di farlo, aumentando il pressapochismo e il superficialismo del sapere giovanile che è sconvolgente. Il tempo libero si passa davanti a internet o sul tablet dove il mercato incontrollato delle immagini tende a sopraffare l’uomo e dove la frammentazione delle sequenze infierisce sul sistema cognitivo. Il figlio viene misurato dai “punti” che è il rendimento scolastico e se i genitori lo rimproverano, anziché incoraggiarlo, il fragile mal sopporta la frustrazione e si instaura in lui la delusione e lo scoraggiamento che si ripercuotono a loro volta sui genitori.
Questi devono rappresentare la legge con l’autorevolezze che proviene dal loro affetto e non con l’autoritarismo. Esercitino la disciplina, fonte di grande e autentico amore perché i figli vogliono essere corretti, soprattutto con la coerenza di vita piuttosto che con le parole.
“Come può succedere questo?” Perché tutti noi, chi più, chi meno, siamo fragili, perché la nostra povertà interiore ci fa soffrire, perché spesso cerchiamo qualcuno che ci aiuti a scrutare, a riconoscere anche le nostre colpe, atto fondamentale per una tranquillità dell’animo. Molti questo “qualcuno” non lo trovano, alcuni si affidano a Dio, pochi a un prete.
Cercare la morte è un’enorme sofferenza perché la volontà di vivere, che è presente in ogni uomo, viene soppiantata e sconfitta.
Eppure chi si toglie la vita desidera essere felice, specialmente dopo che Cristo ha lanciato un messaggio inquietante ed incisivo secondo il quale è necessario che il grano di frumento, affidato alla profondità silenziosa, fredda e oscura della terra, si decomponga e muoia perché risorga a nuova vita.
Ecco perché non giudico né condanno Giuseppe. Dovrei giudicare e condannare me. Non posso però non pensare che Giuseppe sia stato accolto tra le braccia misericordiose del Signore. In me, uomo, giustizia e pietà non possono andare d’accordo: o sono giusto o sono pietoso. Dio, invece, è al tempo giusto e pietoso: questa è misericordia.
Edoardo Zin
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