A commento dell’articolo sullo stato di malattia della scorsa settimana XY, un amico caro e di antica data, mi ha inviato una riflessione autobiografica che sviluppa il tema del dolore psichico, «malattia dell’anima». Ve la propongo integralmente. Amplierò ulteriormente la riflessione in due successivi articoli utili a chiarire il senso di questa rubrica e dedicati rispettivamente ai limiti della filosofia e alla pratica autobiografica come cura di sé.
«Secondo Valerio – scrive XY – “la malattia è un’opportunità, un punto d’osservazione privilegiato”. Quando si ammala l’anima, il punto di osservazione è più complesso: i pensieri si fondono in un’allegria triste. Si vive amaramente la situazione in cui non solo “la vita ci si mostra per quello che è”, ma non si riesce nemmeno a dare un nome a ciò che si vive e non si conoscono più le emozioni. Se l’anima sta male il corpo sta male e lo manifesta.
Quando si ammala l’anima, pensare non è più vivere e sentire non è più nutrimento del pensare, perché non si riesce più a sentire. Quando si ammala l’anima, non si capisce la vita e non si riesce più ad amarla e nemmeno ad odiarla. Il paesaggio dell’anima diventa abisso senza luce, cratere infuocato, deserto che inganna il viaggiatore più esperto. Si vive senza capire e non si fa ciò che si vuole. Si perde tutto quello che si ha. Si perde ciò che si è amato e dopo averlo perso lo si ama perché lo si è perso. Il desiderare svanisce e se dai amore perdi amore. Si diventa orfani della vita, con il bisogno di essere oggetto d’affetto di quella vita che non capisci. Quando si ammala l’anima, vivi come un ubriaco di pensieri e non sai dove andare. E se ti fermi e siedi stremato lungo la strada, tutti si contraddicono e ti ingannano con vuote parole. Ti dicono che ciò che pensi non è vero, ma non sanno dirti cosa è vero. Ti accorgi che la vita è qualcosa che non possiamo nemmeno concepire di concepire.
Quando si ammala l’anima, non esistiamo e diveniamo solo pensieri, pensieri scritti perché non abbiamo niente da dire. Riempiamo pagine di parole senza sapere a cosa possano servire, comprese tutte le altre pagine precedenti, destinate a perdersi prima ancora di finire tra le pagine macerate dal destino. Quando si ammala l’anima, ogni sforzo di sentire è vano: non si sa più come si fa a sentire, Ogni sforzo di vedere è inutile: non si sa più come si fa a vedere. Quando si ammala l’anima si diventa l’ombra di se stessi. Non si vive, ma si finge di vivere. Quel che si sente non va d’accordo con la vita. La desolazione dello spirito si fa sempre più acuta, senti eruzioni dolorose in tutto il corpo prodotte da un maldestro destino. Quando si ammala l’anima, tutto ti interessa e nulla ti prende. Gli ideali entrano nel vortice disordinato del ciclone che tutto solleva e distrugge, creando devastazione e avvilimento. Allora tutto pesa come una condanna assegnata non so dove, da chi, perché. Quando si ammala l’anima, tutto arriva in una lingua incomprensibile, tutto è più vuoto del vuoto, tutto muore di una morte più grande della morte. Persino in sogno è impossibile essere felici, E il risveglio riserva soltanto una pena intensa e invisibile, una tristezza simile al lamento straziante di una madre che piange la morte del proprio figlio, nel buio di una stanza.
Vi è chi conosce ciò che pensa e desidera? Dove sono le energie superstiti quando si sprofonda nel baratro del vulcano? Come risalire e con quali forze?
Se l’anima è malata non so come sentire e come vedere, perché non voglio sentire né vedere. Poi tutto cambia, non so quando né come. Ma non è ancora allegria, solo una sorta di espiazione, o forse voglia di riscatto. Il mio dolore prende un altro significato, oltre al fatto di essere unicamente mio. Dopo l’urlo, la rabbia, lo sfogo e altri momenti continuamente mutevoli, di cui non perdo la consapevolezza, procedo all’analisi essenziale, per coglierne il senso.
Ecco dunque il “punto di osservazione privilegiato”: è quando si tocca il fondo, il punto più basso. Solo dal fondo è possibile iniziare lentamente a risalire alla concretezza esistenziale di un’altra vita, e con un’altra anima che così riceve il suo proprio senso. Neppure il dolore umano è infinito. In fondo allo sconforto riemerge la volontà di vivere».
L’antica polarizzazione anima–corpo nasconde la loro relazione di interferenza reciproca. Nulla so di neuroscienze; posso al più pescare nel bagaglio della mia formazione, dove trovo un termine freudiano, «conversione», che mi sembra, se non proprio pertinente, almeno utile ad offrire una metafora comprensibile di tale interferenza. La psiche invade il corpo persino più di quanto il corpo invada la psiche. I dolori, le «malattie» passano facilmente da un campo all’altro. Inversamente, il corpo può aiutare la mente almeno altrettanto di quanto la mente possa aiutare il corpo. Il vero limite è un altro: l’insieme del corpo può aiutare una sua parte a superare uno stato di malattia; la mente, al contrario, fatica ad aiutare se stessa nel dominare passioni e sentimenti. La mente crea distorsioni – effetti «visivi» (il modo di considerare le cose) e «sonori» (il modo di narrarsi le cose) – che si ripercuotono sui sentimenti, e viceversa. Il metaforico «dialogo» tra «pensiero» e «sentimenti» è, in parole semplici, problematico; per questo le malattie dell’anima sono le più difficili da curare. Da qui ripartirò nel prossimo articolo, sempre avendo a riferimento la riflessione di XY.
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