Il presepio: Gesù Bambino nella mangiatoia, i pastori, i Re Magi… Ricostruire il presepio nell’imminenza del Natale, indipendentemente dal fatto che si sia credenti o no, è una di quelle cose che attengono al sentimento, al senso religioso profondo e nascosto di ognuno, e anche alla poesia. Leggevo, qualche giorno fa, di un amico che pur appartenente a una famiglia laica, laicissima, ricordava con tenerezza di quando era bimbo e usciva di casa per cercare il muschio nel bosco che poi riponeva nel presepio; perché il presepio in casa sua non mancava mai. Dà un senso di imbarazzo e di fastidio il vedere come il presepio sia preso talvolta a pretesto politico in previsione di qualche voto in più. È quasi una forma di violenza.
Guido Gozzano è considerato, tra i poeti, un maestro del Crepuscolarismo, vale a dire – stando al termine un po’ riduttivo coniato dalla critica circa un secolo fa – un poeta che, dopo i fasti gloriosi e aulici della poesia italiana, attenua i toni, annegando nel quotidiano, quasi naufragandovi per ricordare Leopardi; a giudizio di alcuni – forse – era ed è anche un poeta per signorine, cioè non proprio un grandissimo poeta… A noi Guido Gozzano, o guidogozzano come si firmava lui, invece piace molto. Per i toni soffusi, per i modi un po’ ironici di inquadrare l’universo femminile, per il suo innegabile disincanto e perché – come poeta – fa sempre centro nel cuore.
Una delle sue poesie più note, quella che tutti (o quasi) studiano al liceo, è “La signorina Felicita ovvero la Felicità”. Scrive Gozzano nel descrivere l’amica: “Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue vesti quasi campagnole, / ma la tua faccia buona e casalinga, / ma i bei capelli di color di sole, / attorti in minutissime trecciuole, / ti fanno un tipo di beltà fiamminga…”. Non una gran bellezza, dunque, ma un tipo, come si dice spesso quando non si vuole eccedere nel complimento. E come non esserne lo stesso innamorati? “E rivedo la tua bocca vermiglia / così larga nel ridere e nel bere, / e il volto quadro, senza sopracciglia, / tutto sparso d’efelidi leggiere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglia…”. Occhi bellissimi… Belli e poetici tanto quanto quelli di Silvia, “ridenti e fuggitivi”.
Un’altra poesia di Gozzano, meno conosciuta forse, ma pure molto bella, è “Cocotte”. Guido bambino ha a che fare con una “cocotte”, nome amorevole e curioso che ha in comune con un suo volgare sinonimo italiano solo la doppia t. La mamma di Guido non vuole che il bimbo dia confidenza alla cocotte, una “cattiva signorina”. Il bimbo gioca nel giardino che si affaccia sulla strada: “Un giorno – giorni dopo – mi chiamò / tra le sbarre fiorite di verbene: / ‘O piccolino, non mi vuoi più bene!…’ / ‘È vero che tu sei una cocotte?’ / Perdutamente rise… E mi baciò / con le pupille di tristezza piene”.
Un poeta così straordinario, che ci sorride con malinconia, laico, come si può pensare, ha scritto una delle poesie più belle e più vere tra quante si conoscano dedicate al presepio e al Natale. Ecco perché abbiamo voluto parlarne. Guido Gozzano riprende dalla tradizione e rielabora quanto narrato nel secondo capitolo del Vangelo di Luca (6-7): “Mentre si trovavano in quel luogo (ndr, Betlemme), si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.
L’operina di Gozzano – “La Notte Santa”, nota a moltissimi di noi fin da quando s’era ragazzi – compare nelle raccolta delle Poesie sparse. L’autore immagina Maria, ormai prossima a dare alla luce il figlio, e Giuseppe alla ricerca di un ricovero per la sera e per la notte. E descrive con grazia e verità le difficoltà di una tale ricerca, metafora dell’accoglienza: “Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio? / Un po’ di posto per me e per Giuseppe? / – Signori, ce ne duole: è notte di prodigio; / son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe. / Il campanile scocca lentamente le sette…/”.
E via, ancora, di portone in portone: “– Oste del Moro, avete un rifugio per noi?…”; “ – O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno…”; “– Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!…”; “– Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname ? / Albergarlo? Sua moglie? / Albergarli per niente?…”. In cammino fino all’ultimo: “La neve! – Ecco una stalla! – Avrà posto per due? / – Che freddo / – Siamo a sosta – Ma quanta neve, / quanta! / Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue… / Maria già trascolora, divinamente affranta… / Il campanile scocca la Mezzanotte Santa.”.
Si conclude il viaggio di Maria e Giuseppe, che poi non è che un inizio: “ È nato! / Alleluja! Alleluja! / È nato il Sovrano Bambino. / La notte, che già fu sì buia, / risplende d’un astro divino…”.
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