Anni fa, quando io ero una bambina e San Fermo era un paesino, la Messa di mezzanotte era riservata agli adulti (specialmente uomini), mentre le mamme mettevano a letto presto noi bambini dicendoci: “Se non dormite subito, Gesù Bambino non vi porta i doni”.
Il Circolo e il Tabacchino chiudevano i battenti poco prima e così i “santi bevitori” si recavano in massa alla Messa e la Chiesa di Cristo Re era stracolma come non mai.
A casa mia il presepe lo preparavamo noi bambini con il muschio vero raccolto nei boschi e ciascuna statuina era stata “battezzata” dal papà con i nomi degli abitanti di San Fermo: “ul Ziu Giuan”, “ul Ricoeu”, “la Carlota”, la Giudita”, ecc. I tre Re Magi erano: “ul Geni”, “ul Giacum” e “l’Angiulin Bisa”. La gatta di casa ogni notte si acciambellava nel mezzo del presepe a dormire e così, ogni mattina, si dovevano rimettere a posto le statuine e rifare la stradina con la farina bianca.
L’albero di Natale era un ramo di abete che veniva appeso al muro in un angolo della “saleta” (locale di riguardo che chiamare salotto sarebbe troppo pomposo). Veniva addobbato dai genitori la notte della vigilia con mandarini, noci, spagnolette, caramelle e qualche cioccolatino. Questi ultimi però avevano vita breve perché il papà, al mattino presto, prima di andare a letto (faceva il tipografo in Prealpina e quindi lavorava di notte), li svuotava del contenuto, risistemando la carta stagnola in modo che nessuno se ne accorgesse. Noi bambini non dovevamo toccare nulla fino a dopo le feste.
La tacchina, che si mangiava solo una volta all’anno – a Natale, appunto – veniva appesa, qualche giorno prima di essere cucinata, all’interno della “gelosia” (l’imposta) per stare al fresco: il frigorifero non l’avevamo ancora. Una mattina il papà, spalancando con impeto l’imposta, fece cadere la tacchina di sotto. Allora c’erano parecchi gatti, tutte le famiglie ne avevano uno per via dei topi, ma per fortuna con una corsa del Ziu Pedrin che abitava di sotto, nella “Curt di Biei”, si riuscì a ricuperarla.
I doni di Gesù Bambino consistevano generalmente in oggetti utili: quaderni, matite, sciarpe, guanti. La prima bambola che ricevetti fu oggetto di scherno da parte di mio fratello Giancarlo, che mi canzonò dicendo: “Te vedat mia ca l’è tuta rifaia? Guarda che facia, l’è tropa rosa, l’avrà ripiturava ul ziu Paulin” (che si dilettava di pittura). Ottenne così l’effetto di farmi piangere il giorno di Natale.
A proposito di pianti, io e mia sorella Mariuccia, il giorno dopo Natale piangevamo sempre e la mamma ci consolava dicendo: “Le feste non sono finite, tra qualche giorno arriveranno i Re Magi”.
La vigilia dell’Epifania mettevamo sul tavolo della “saleta” un piattino con alcuni pezzetti di pane e un bicchiere con l’acqua per i cammelli. Collocavamo anche i berretti di lana che dovevano fungere da contenitori per i doni dei Re Magi. La mattina dopo li trovavamo pieni di mandarini, noci, spagnolette, caramelle e …. cioccolatini no, perché se li era già mangiati il papà, assieme al pane per i cammelli …. e aveva pure bevuto l’acqua!
Giovanna Segato
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