Prima o poi, tutti incorriamo nell’esperienza di una malattia grave, che o ci espone al rischio di morte o, pur rivelandosi curabile, intacca l’integrità della nostra persona perché diminuisce stabilmente l’efficienza del nostro apparato corporeo o, più semplicemente, nonostante l’avvenuta guarigione o la ripresa di un apprezzabile equilibrio funzionale, per la portata psichica del suo avvento ci pone nelle condizioni di «non essere più come prima».
La malattia, quando grave, non è un mero evento corporeo, un’alterazione funzionale più o meno improvvisa. È un’esperienza esistenziale di primaria importanza: essa precede l’esperienza stessa della salute, che si manifesta e diviene problematica soltanto quando la si perde. Sin dalla vita infantile l’esperienza di malattie un tempo responsabili di un’elevata mortalità, insedia precocemente in noi una rosa di sentimenti primitivi: la dipendenza dagli altri; il bisogno di sentirsi circondati da quella particolare affettività che caratterizza la relazione di cura; la fragilità e l’esposizione al dolore; la sofferenza psicofisica e la temporanea menomazione vitale. Nella vita adulta, la malattia ci priva, per un certo tempo o definitivamente, della nostra abituale possibilità di agire e di interagire con il mondo e con gli altri. La quotidianità è sospesa, ma la sua sospensione, nel mentre forzatamente ce ne estranea e priva, facilita una presa di distanza potenzialmente feconda.
Sia pur in mezzo ai timori, alle ombre e ai patimenti che in quei frangenti di solitudine ci sono inesorabili compagni, proprio questa privazione ci interroga sui nostri stili di vita, sui limiti del nostro corpo, sulla logica prestazionale cui lo sottoponiamo, sul nostro uso del tempo e, in ultimo, sul significato del nostro vivere in vista dell’ineluttabile esito biologico della morte. Ma la riflessività tipica dell’adulto consapevole davanti alla propria malattia torna in ultima istanza a ruotare attorno ai nodi che abbiamo esperito senza riflessione nella prima infanzia. Ben lungi dall’essere una regressione, si tratta di un ritorno esistenzialmente educato e carico di esperienze al nucleo più autentico ed elementare della nostra finitezza e del nostro essere costituzionalmente fragili, deboli, esposti.
La malattia grave provoca, come ha scritto Byron J. Good, «un mutamento nell’esperienza incarnata del mondo della vita», potenzialmente creativa, soprattutto sul piano intersoggettivo e intrasoggettivo. Nel darsi della malattia all’esperienza coesistono perciò un’effettiva «distruzione di mondo» e una potenziale «ricostruzione di mondo». Come la prima non è una negazione assoluta, così la seconda non è una creazione dal nulla. Veniamo privati di molto, ma non spogliati di tutto; e almeno in parte ciò di cui veniamo spogliati è l’inessenziale, per quanto possa essere pregnante sul piano esistenziale nell’orizzonte quotidiano dei ruoli, dei doveri e dei bisogni. Ma proprio a partire da ciò che la malattia non intacca nella sfera psichica, prima ancora che in quella strettamente biologica, si schiude la possibilità della conquista di un nuovo equilibrio, che potrebbe rivelarsi non più povero, bensì più essenziale e ricco anche quando nasce da un adattamento a lesioni funzionali irreversibili.
La malattia è un linguaggio del corpo che irrompe nella coscienza, e di lì scuote la rappresentazione che ciascuno dà di sé, mettendo in causa l’universo dei significati e delle priorità che attribuiamo alla nostra vita. In questo senso la malattia è un’opportunità, un punto di osservazione privilegiato, una sorta di epifania che rimescola la gerarchia dei nostri valori e riscrive le narrazioni autobiografiche che danno evidenza a quella razionalizzazione che chiamiamo «identità». Sul piano intersoggettivo, nel tempo per noi stessi che la malattia paradossalmente ci offre, gli oggetti del vivere quotidiano, con i loro affanni, si scolorano e in loro luogo riacquistano consistenza gli affetti; e questi ritrovano, in quella sospensione rivelatrice, la loro centralità e il loro primato. Torniamo a percepire ciò che sappiamo da sempre, ma che posponiamo ordinariamente alla coscienza: la vita ci si mostra per quello che è, come relazione non strumentale con gli altri, come interdipendenza, mutualità e scambio affettivo.
Sul piano intrasoggettivo, invece, la malattia rimette al centro soprattutto un più corretto rapporto con noi stessi. La cura di noi stessi, che affidiamo ad altri nel nostro stato di infermità, diviene una prospettiva per il futuro, che non possiamo invece delegare ad altri. E non importa quanto quel futuro sia lungo. Fosse anche un solo giorno, l’ultimo, dovremmo prenderci cura, in quell’arco di tempo, di noi stessi e degli altri che ci costituiscono. Ne risulta una configurazione paradossale: lo stato di malattia è nel medesimo tempo un possibile stato di guarigione. Certo, non da una cardiopatia ischemica o da un’emiparesi, ma dagli stati patogeni del nostro disporci nelle relazioni, del nostro spendere il tempo, dei nostri obiettivi e delle bussole che indirizzano il nostro agire e che assorbono le nostre energie. Né la malattia né la guarigione sono, in altre parole, un evento oggettivato, non si riducono mai ad un mero compito della tecnica clinica.
Il presupposto di questa «guarigione» sta nella nostra capacità di congedarci da due narrazioni solo in apparenza opposte: quella di un’esistenza dominata da un’eteronomia insuperabile, e quella di una proiezione al mutamento che sopravvaluta il potere della volontà. La capacità pedagogica del binomio malattia-guarigione ci addestra invece a purificare, selezionare e rafforzare il campo delle nostre «intenzionalità», fino a far convergere sui loro scopi le nostre migliori energie superstiti, quali che siano, e le nostre ritrovate risorse psichiche e affettive.
L’integrità dell’intenzione si manifesta così non come pura «volontà di vivere», ma come interrogazione circa la qualità del vivere che vogliamo per noi, pur entro condizioni circoscritte dai lasciti fisici della malattia, e senza ridurre quella qualità ai buoni propositi di un vivere più sano e più rispettoso di quello straordinario costrutto biologico-evolutivo che è l’unità inscindibile di corpo e mente. Ci è richiesta, in conclusione, una migliore e più mirata padronanza di noi stessi. Se questo fosse l’esito delle opportunità schiuse dalla malattia, potremmo davvero dire che «non tutti i mali vengono per nuocere».
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