«Ho sempre cercato di saldare la terra al cielo», mi dice don Luigi Ciotti allargando le braccia un po’ sconsolato. Questa mattina a Milano (il 4 dicembre scorso, ndr) l’Università Statale conferisce una laurea honoris causa in Comunicazione pubblica e d’impresa a lui, a don Gino Rigoldi e a don Virginio Colmegna: e questo va bene, ovviamente.
Quello che non va bene è che hanno appiccicato, a lui e agli altri due laureandi, l’etichetta di «preti di strada». «Non chiamateci preti di strada!», dice don Ciotti: «Siamo preti e basta. Ogni ulteriore qualifica – preti antimafia, preti antidroga eccetera – è di troppo».
Sono anni che lo descrivono un po’ così. Anche in buona parte del mondo cattolico, don Ciotti è considerato un uomo molto impegnato nel sociale, nella lotta alla criminalità eccetera; insomma bravissima persona, ma più assistente sociale che prete. Molta umanità e poco Dio. Molta terra e poco cielo. Lui invece quello che fa te lo spiega sempre partendo dal Vangelo e da Dio: «Dire “preti di strada” non ha senso perché il Vangelo e la strada sono inseparabili. Nella parola prete è implicita la parola strada! “Preparate la strada del Signore”, dice il Vangelo di Marco. La strada è incontro con Dio e incontro con le persone, è la saldatura di terra e cielo», appunto.
Siamo nella ex fabbrica di periferia che da alcuni anni è la sede del Gruppo Abele e di Libera. Nell’ufficio di don Ciotti non è appesa la fotografia di qualche politico o magistrato, ma di un prete: don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta scomparso nel 1993 per il quale la Congregazione per le cause dei santi ha avviato il processo di beatificazione. Le etichette degli scatoloni porta-documenti sembrano poi la prova perfetta della sua attività di saldatore fra terra e cielo. Su una è scritto «Battesimi matrimoni anniversari» e su un’altra «Mafie»; su una «Liturgie per i defunti» e su un’altra ancora «Aids tratta prostituzione». Follia, per don Ciotti, separare la fede nell’aldilà dalla realtà dell’aldiquà.
«Vivere il Vangelo», mi dice, «non vuol dire soltanto insegnare e osservare la dottrina. Vuol dire prima di tutto incontrare e accogliere le persone, avendo come unico criterio i loro bisogni e le loro speranze. Io intendo così il Vangelo, e non posso che gioire del fatto che papa Francesco abbia voluto caratterizzare la “sua” Chiesa come una Chiesa in cammino, sulla strada, diretta nei luoghi più poveri e dimenticati». E per evitare possibili accuse di materialismo, precisa che la povertà non è solo quella economica: «Ci sono i poveri di risorse ma anche i poveri di senso. Ci sono le periferie geografiche e quelle dell’anima».
Nel 2015 la sua opera taglierà il traguardo del mezzo secolo. È Natale del 1965 quando il ventenne Luigi Ciotti fonda con alcuni amici un gruppo che si dà il nome di «Gioventù Impegnata». La vera sede è proprio la strada. Corso Gaetano Salvemini e le vie di Mirafiori Nord, quartiere operaio. Nel 1968, quando molti giovani inneggiano alla rivoluzione della politica, Luigi Ciotti pensa alla rivoluzione dei cuori e cambia il nome in «Gruppo Abele». Nel novembre del 1972 viene ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, un arcivescovo che si fa chiamare padre. «Come parrocchia mi affidò la strada e mi disse: ci andrai a imparare, non a insegnare».
Questa mattina incontrerà due preti molto simili a lui. «Con Gino ci conosciamo dai primi Anni Settanta. Ci occupavamo di carceri e sui nostri cartelli scrivevamo che delinquenti e disadattati non si nasce, lo si diventa. Ci aiutavamo come potevamo. Una sera andai a parlare a Langhirano e, alla fine, mi regalarono sei prosciutti. Il giorno dopo incontrai Gino che cercava risorse per aprire la prima comunità. Gli regalai un prosciutto e gli dissi: comincia da questo. Don Virginio Colmegna invece l’ho conosciuto all’inizio degli Anni Ottanta, quando a Milano era arrivato il cardinal Martini. Da allora non ci siamo mai persi di vista».
Come si potranno trovare tre soggetti come questi in un’Aula Magna in cui si «conferiscono» lauree magistrali, è facile da immaginare. Don Ciotti è riconoscente ma anche un po’ imbarazzato. Gli chiedo che cosa dirà davanti a tanti professoroni: «Dirò che più che in scienza della comunicazione mi sento laureato in scienza della confusione. Ho una chiara coscienza dei miei limiti… Ma due cose credo che le aggiungerò. La prima è che la comunicazione è una cosa importante anche per noi che ci occupiamo di problemi sociali, ma è pur sempre un mezzo, non un fine. Oggi c’è una grande enfasi sul comunicare, spesso però direttamente proporzionale alla povertà dei contenuti».
E la seconda cosa? «Che il fine della comunicazione sono le persone. Ma non le persone come potenziali clienti, consumatori o proseliti. Le persone come domande di sapere, come bisogni inespressi, come diritti non tutelati. Come soggetti di dignità e di libertà. Qui sta l’etica della comunicazione e qui sta anche il futuro della nostra democrazia».
La Stampa, 04.12.14
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