Diversamente dal solito, dovrò parlare in prima persona. Conosco pochissimo la teologia, non aderisco ad alcuna religione, positiva o secolarizzata (il marxismo, l’onnipotenza provvidenziale del Dio Mercato, il culto della tecnica e altre ideologie). Certe credenze new age, scadenti surrogati delle religioni, come le «medicine alternative», mi irritano. Non pratico nemmeno la religione dell’ateismo. Trovo superficiale e un po’ pilatesco il cosiddetto agnosticismo. Non tifo per nessuna squadra; non ho idoli; diffido dei sistemi filosofici strutturati. Pur concependo l’impegno civile e civico come una sorta di dovere, anche in politica mantengo un certo distacco. Il mio è, in una parola, un atteggiamento di integrale laicità, salvo sottoporre la laicità stessa al medesimo atteggiamento critico, al medesimo distacco che riservo a tutto il resto. Non ho titoli per parlare in astratto di fiducia in Dio. Posso farlo solo in chiave autobiografica. Il mio argomentare non ha pretese: vale per me e per me solo, o al più per chi condivide, pur in una prospettiva laica, gli stessi sentimenti che cerco ora di spiegare. Se quel che dirò ha a che fare con gli stili di vita, non so. So che ha a che fare con il mio. Solo il capoverso finale parla forse a tutti.
Fin da giovane ho praticato l’escursionismo in alta montagna. A sedici anni ho attraversato, in due giorni, le Dolomiti del Brenta, da Molveno a Madonna di Campiglio e ritorno. Fu la prima «rivelazione». Ho scoperto di «sentirmi a casa» tra i monti. Per chi non si fa assillare da ansie prestazionali psichicamente deformanti, quel camminare lento, silenzioso, attento al passo e al respiro, aperto allo scorrere libero dei pensieri e alla contemplazione dell’elemento sublime della natura, è un esercizio spirituale che conduce al misticismo. Il misticismo non è monopolio delle religioni, ma inevitabilmente interroga su Dio, sull’infinito e sulla nostra pochezza.
Il misticismo insieme turba e sazia, inquieta e placa, inebria e addolcisce, ci spinge a ritrarci e nel medesimo tempo ad abbandonarci. E infonde un sentimento altrimenti perduto da molto tempo in ogni società, e non solo nella nostra: il senso del sacro. Sacro per me è il Campanile Basso ammirato con un tremito dal rifugio Brentei, o un interminabile tramonto e un rapido crepuscolo osservato da una terrazza sul Niger a Gao, o l’isolotto di Sant’Elena coperto di aucube nel laghetto dei Giardini Estensi. Sacri sono gli animali nella loro innocenza. Sacra è persino la sofferenza, se è feconda. Il sacro è una bellezza che non ci limitiamo ad ammirare e a gustare, ma cui conferiamo anche amore: un grumo di affettività, e spesso di memorie di sentimenti vissuti, che ci impone di non violare, non profanare quella bellezza. Siamo noi soli – almeno oggi – a sacralizzare, a costruirci, mediante quel grumo, le nostre zone sacre.
Ho avuto una precoce educazione a viaggiare in cerca del bello. Ho trascorso circa un sesto della mia vita in giro per il mondo. Se il corpo, i legami affettivi e il dovere di contrastare un dissennato parcheggio in un luogo amato me lo consentissero, viaggerei quasi sempre. Passo giornate nei musei, nei centri storici, tra le vestigia del passato. Ma nessun luogo mi emoziona ed incanta come molte chiese, o anche alcune moschee e sinagoghe. Nel mausoleo di Mevlana, a Konya, i canti sufi mi hanno commosso fino al pianto. Era il 1985. Allora mi imbarazzai, e cercai di nascondermi a chi era con me. Ora ho deciso di non nascondermi più. Non so se Dio esista, ma so per certo che ci sono stati alcuni uomini che hanno saputo far esistere Dio nei luoghi che hanno concepito e realizzato: le chiese di Aquileia, Pomposa, Biasca, Arsago Seprio, Vezelay, Sant’Ambrogio a Milano, la cappella di Le Corbusier a Ronchamp, la moschea di Kairouan, la sinagoga di Djerba… Un tempo, prima della «rivelazione» di Konya, agivo da turista tipo: controllavo se ci fosse davvero ciò che la guida del Touring suggeriva di guardare. Ora non più, per fortuna. Entro, mi siedo, e prima di ogni altra cosa ascolto il silenzio ad occhi chiusi, e sempre ad occhi chiusi percepisco lo spazio. Poi contemplo, assorbo. Solo in seguito osservo, esamino. Ma prima di uscire mi fermo di nuovo, come a ricapitolare, per stringere in una sola emozione la totalità di quanto ho visto. La guida la guardo dopo, in albergo.
Non so dire se, da Konya in poi, o anche nel silenzio notturno in cui da tempo ascolto il canto gregoriano nella mia camera, abbia potuto incontrare Dio. Credo di no. Nella sua ineffabilità, posso affidarmi solo alle parole degli uomini che ho incontrato: Bernardo di Clairvaux a Vezeley, Perotinus cantato dall’Hilliard Ensemble, Le Corbusier a Ronchamp. O Bach che ha composto per Dio le Variazioni Goldberg. Non ho fede; non posso riporre fiducia direttamente in Dio. Ma dove gli uomini hanno saputo far esistere Dio, lì mi schiudo allo scorrere di un sentimento mistico. La sola e vera e comunione che riconosco è con Bernardo, Perotinus, Le Corbusier. Ho fiducia in loro, e solo per loro tramite, per ciò che mi testimoniano mediante quanto hanno creato, posso nutrire una qualche fiducia in Dio. E ho fiducia nelle persone a me care che sento prossime, anziché distanti, proprio per come vivono la spiritualità cristiana.
Questa indiretta fiducia nel Dio degli uomini nulla chiede, nulla impetra, nulla spera. É silenziosa, anche se non propriamente muta. Manca di parole. Il senso della preghiera mi sfugge. La trovo, con Bruno e Spinoza, una sfida «umana, troppo umana» all’impersonalità dell’Ineffabile. Semmai, affido ad altri – oserei dire, spingendomi molto in là, alla loro «intercessione» -, a chi ritiene, mediante la fede, di avere le parole e di trovare ascolto, il senso di gratitudine per l’esperienza mistica che uomini come Bernardo o donne come Hildegaard di Bingen mi hanno consentito. É stato così l’estate del 2013, in un passaggio per me difficile.
Ho già connesso la mistica del sacro alla mistica dell’affettività, due elevazioni che ho scoperto nel tempo essere complementari. Per me, questo nesso va oltre l’astratto amor Dei intellectualis di Spinoza, che mi fa pensare a certi annunci matrimoniali ora in disuso – «Quarantenne amante della caccia sposerebbe max trentenne che sappia cucinare la selvaggina»: un amore a comando dettato dalla mente. Semmai somiglia all’έυ καί πάυ che Hölderlin mise in bocca a Iperione: «Essere uno con il tutto, questa è la vita degli dèi, è il cielo dell’uomo! Essere uno con tutto ciò che vive; tornare, in un beato oblìo di sé, nel tutto della Natura: questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta del monte, la sede dell’eterna quiete, dove il meriggio perde la sua afa e il tuono la sua voce, e il mare infuriato somiglia all’ondeggiare di un campo di spighe».
É possibile vivere nel sacro. Non possiamo dissacrare ogni cosa. Senza sacralità l’esistenza si svaluta, degrada. E «il vertice dei pensieri e delle gioie» si dissolve alla vista. Non dobbiamo ignorare il sentimento della totalità di cui siamo parte. Perciò gli uomini che hanno fiducia in Dio e sanno farlo esistere sono dei compagni di strada, e persino una bussola, anche per chi non crede. Questo solo volevo dire.
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